Il dialogo ebraico-cristiano inciampa su malintesi e passi indietro
Ilenya Goss, pastora valdese, esprime su Riflessi il suo punto di vista sullo stato delle relazioni tra ebraismo e cristianesimo, in un momento in cui alcune posizioni dentro la Chiesa cattolica sembrano peggiorare le possibilità di dialogo
Pastora Goss, la guerra in corso a Gaza da oltre un anno, accesa dall’eccidio commesso da Hamas il 7 ottobre a danno di civili israeliani, interroga costantemente non solo il mondo ebraico ma anche le coscienze religiose del mondo cristiano. Qual è la posizione della Chiesa Valdese al riguardo?
È necessario fare una premessa. La Chiesa Valdese non ha una gerarchia che detti una linea cui tutti i fedeli devono uniformarsi, tantomeno su questioni politiche. Al nostro interno è favorito sempre un ampio dibattito e una dialettica con l’invito a ciascuno ad assumersi la responsabilità delle proprie opinioni e delle proprie scelte. Questo naturalmente non significa che poi noi non prendiamo una posizione condivisa. Arriviamo infatti ad adottare linee generali sui vari argomenti di interesse anche pubblico, che vengono discusse e votate dal Sinodo, ossia un’assemblea di rappresentanti delle nostre chiese che si riunisce ogni anno in estate a Torre Pellice. Nel Sinodo di quest’anno si è votato un atto che esprime così la posizione dell’intera collettività sulla guerra a Gaza.
Può illustrarci i contenuti del documento?
L’atto numero 36 tiene conto delle diverse posizioni che si sono registrate all’interno della Chiesa Valdese sul conflitto, sia di quelle che hanno fatto segnare una maggioranza di consensi che delle altre, sostenute da una minoranza. Il documento ha dunque cercato di raggiungere il massimo consenso su una posizione condivisibile. In tal modo l’atto numero 36 poggia su quattro punti: la richiesta di un cessate il fuoco immediato; la prosecuzione e l’approfondimento di negoziati di pace; l’invio di aiuti umanitari urgenti a Gaza; l’immediata liberazione degli ostaggi. Inoltre il documento auspica un impegno per il raggiungimento di una pace basata sul diritto e la giustizia. Infine si condanna ogni radicalismo e ogni fondamentalismo, non solo di quelli drammaticamente manifestati nell’area, ma anche quelli che si sono registrati in Europa e nel mondo. Come le dicevo, l’atto è stato approvato al termine di un dibattito lungo e anche acceso, che ha visto esprimere le diverse posizioni presenti all’interno della nostra comunità.
Faceva ora riferimento al rischio di radicalismo e fondamentalismo. Qual è la sua opinione sulle tante manifestazioni che dopo il 7 ottobre si sono avute in Italia e sui dati raccolti da osservatori imparziali che registrano un aumento degli episodi di antisemitismo nel nostro paese?
Devo precisare che l’attacco terroristico del 7 ottobre mi ha colpita in modo diretto. È stato infatti per me un vero shock, a causa della mia vicinanza all’ebraismo e alle comunità ebraiche, sia per impegno nel dialogo ebraico-cristiano sia per legami e relazioni personali. Dal 7 ottobre mi sembra chiaro che la nostra società soffre di un aumentato livello di aggressività che molti esprimono nel prendere posizione sul conflitto escludendo ogni discussione, bloccando il dialogo attraverso l’insulto, l’accusa, il giudizio. È innegabile che questo conflitto fa riemergere ciò che non è mai stato elaborato fino in fondo, così osserviamo il ripetersi di parole e atti di antisemitismo. La situazione è preoccupante in molti Paesi, e anche in Italia il clima non è rassicurante e si percepisce il saldarsi ideologico di posizioni politiche con una ostilità verso cui occorre tenere alta l’attenzione.
A cosa si riferisce?
Ad atteggiamenti di chiara ostilità verso gli ebrei, in cui vengono mischiate posizioni che spaziano dall’antisemitismo, all’antigiudaismo e all’opposizione allo Stato di Israele. C’è in altre parole una forte strumentalizzazione delle notizie e della situazione, forse anche da parte di forze politiche. Da parte di molti inoltre non c’è alcuno sforzo di comprendere la situazione ed elaborare un pensiero con un atteggiamento aperto e riflessivo: si tratta di questioni complesse che richiedono la capacità di distinguere i diversi aspetti dei problemi e dei conflitti, mentre le reazioni irriflesse rendono le persone facile preda di polarizzazioni dannose. È facile immaginare come simili reazioni aumentino la conflittualità e la tensione, non solo sul piano sociale, ma anche religioso.
Qual è lo stato delle relazioni fra mondo ebraico e Chiesa Valdese?
Da molto tempo siamo coinvolti a livello teologico nel dialogo interreligioso, il Sinodo del 1982 sottolineava l’importanza del rapporto con l’ebraismo. Personalmente sono fortemente convinta dell’importanza del dialogo ebraico-cristiano, lo vivo come una dimensione centrale sia nell’impegno di studio e confronto sulla Torah, sia a livello spirituale ed etico. A queste ragioni che motivano il mio impegno anche professionale si aggiunge dopo il 7 ottobre l’esigenza potente e urgente di tessere e consolidare relazioni di fiducia, di restare uniti in una situazione che minaccia di arrestare il percorso. Va detto infatti che dal 7 ottobre c’è una maggiore fatica nel portare avanti il dialogo, i rapporti delle chiese cristiane col mondo ebraico appaiono più freddi, con mia grande preoccupazione. Insomma, dobbiamo riconoscere che il rapporto fra ebrei e cristiani, che per me rimane centrale, dal 7 ottobre è in difficoltà.
Ci aiuta a comprenderne meglio le cause?
Devo registrare con dispiacere che in generale c’è una maggiore sfiducia da entrambe le parti. Siamo in pochi, sia tra gli ebrei sia tra i cristiani, a sostenere con passione e amore la necessità di tenere vivo il dialogo. Poche settimane fa, ad esempio, durante gli storici Colloqui ebraico-cristiani di Camaldoli, rav Arbib [presidente dell’assemblea rabbinica italiana, n.d.r.], ha sottolineato in un suo messaggio che le comunità ebraiche percepiscono un senso di solitudine, anche perché non hanno avvertito il sostegno del mondo cristiano. Vorrei ricordare al riguardo che il mondo cristiano è una realtà molto complessa, anche se spesso si dimentica che esistono molte chiese, come quella Valdese, e che non tutte possono essere ricondotte a quella cattolica. Resta il fatto che una serie di interventi, che personalmente ritengo molto inopportuni, da parte di esponenti della parte maggioritaria del cristianesimo italiano ha messo in difficoltà chi lavora costantemente per rafforzare il dialogo interreligioso e tessere relazioni tra fedi diverse. Fa male rendersi conto che nonostante l’impegno si fa fatica a far arrivare la nostra vicinanza al mondo ebraico. Da parte mia posso solo assicurare che il mio impegno professionale e la mia attenzione saranno sempre massime.
Posso chiederle qual è il suo giudizio sulla posizione del Vaticano riguardo al conflitto?
Non possiamo ignorare il fatto che anche quest’anno, come quello passato, in occasione dell’avvicinarsi delle festività natalizie, come del resto anche a Pasqua, siano comparse immagini che legano la nascita di Gesù o la sua resurrezione a messaggi politici. Mi riferisco, ad esempio, alle rappresentazioni di Gesù con la kefiah palestinese. La prima cosa che occorre ribadire, nonostante la sua ovvietà, è la ebraicità di Gesù, ma in questi episodi non si tratta evidentemente di una semplice questione storica, bensì di un manifesto di schieramento politico adottato o consentito nella Chiesa cattolica. Si tratta di qualcosa che non urta solo il mondo ebraico, ma ferisce anche una parte del mondo cristiano, anzi, credo che proprio i cristiani dovrebbero lamentare queste strumentalizzazioni che fanno male al dialogo e deformano la percezione delle cose soprattutto in chi ha meno strumenti di analisi. La grande risonanza data alle notizie provenienti dal Vaticano in Italia fa sì che gli effetti siano molto forti, e le parole incaute sono state molte. Anche uno studioso apprezzato come il cardinal Ravasi ha fatto affermazioni di commento al conflitto che sembrano prescindere da un percorso di almeno sessant’anni di rinnovati rapporti ebraico-cristiani. Ed è un dato di fatto che troppo spesso c’è un approfondimento del tutto insufficiente della cultura ebraica. Sembra che viviamo in tempi in cui tutto il lavoro fatto in passato sia stato inutile e si ritorni ad affermazioni teologiche che speravo giudicate definitivamente e quindi estinte. Mi sembra in definitiva che oggi ancora siano in molti a non conoscere e a sottovalutare il portato etico e culturale del mondo ebraico.
Per esempio?
Per esempio approfondire l’insegnamento della Torah e dei Profeti rende chiaro che è proprio lì che si trova la fonte degli elementi caratterizzanti dell’amore, della misericordia, del perdono a cui l’ebraismo e il cristianesimo attingono, pur sotto profili differenziati. Si sta anche disconoscendo la posizione che l’ebraismo esprime nella Torah e nei commenti dei maestri su temi come la guerra e il trattamento dei nemici, e questo studio sarebbe forse da rimettere al centro per cristiani ed ebrei oggi. Riscoprire l’importanza dell’etica ebraica anche su questi temi potrebbe aiutarci a evitare inutili contrapposizioni. Forse è legittimo chiedersi se dietro malintesi, gesti e parole divisive ci sia solo disorientamento o piuttosto una precisa strumentalizzazione di una situazione drammatica che stiamo vivendo insieme, ma ancora troppo poco uniti. Certamente la complessità di quanto sta accadendo chiede lo sforzo di un chiarimento di ciò che intendiamo ottenere, di quale finalità concorriamo a realizzare con ogni parola o gesto che poniamo: una attenzione che vale per chi ha grandi responsabilità come per chi vive un quotidiano meno esposto pubblicamente, perché infine il clima sociale e culturale in cui viviamo vede il concorso di tutte e tutti.