Grazie a dei Giusti ci salvammo
Roberto Jona, agronomo di fama internazionale, racconta la sua infanzia e di come, fin da bambino, coltivò la passione per la scienza applicata all’agricoltura
Professor Jona, vorrei cominciare dalla sua famiglia. Lei è un ebreo di nascita genovese, cosa ci può raccontare della sua infanzia?
Mio padre, Salvatore, era avvocato. Parte della storia della nostra famiglia è contenuta nel libro che ha scritto, “Resistenza disarmata”, incentrata sul momento più caldo della persecuzione, ma che comprende anche i primi suoi anni. Anche mia madre ha scritto dei Diari, poi acquisiti da una storica della California, in cui emerge la parte di interesse storico. Mio padre voleva diventare medico, ma sua madre, conoscendone la sensibilità, era contraria, al punto da convincerlo a cambiare facoltà: così si iscrisse a legge. Oggi credo che il fatto che sia lui che il suo amico e collega Emanuele Custo fossero avvocati abbia segnato la nostra salvezza. Sia lui che sua moglie Rosetta, alla fine del 1943, ci accolsero in casa, con un coraggio che rasentava l’incoscienza. Eravamo i miei genitori, mio fratello e la nonna materna. Poi si unì anche il nonno paterno. Furono, Emanuele Custo e sua moglie nominati giusti tra le nazioni. L’essere sia Custo che mio Padre avvocati, come le dicevo, ci aiutò.
In che senso?
La persecuzione avveniva sulla base di leggi. Credo che averle sapute leggere e maneggiare permise a mio padre di sottrarsi ai maggiori rigori. Io credo che molte vittime ne furono travolte perché incapaci di capire tempestivamente la struttura legale di quelle disposizioni infami e scorgere la via per sfuggire a quei rigori. Per esempio, quando fu adottato l’ordine di concentrare gli ebrei in luoghi di raccolta, mio padre si diede da fare subito per trovare una via di fuga. Fu così che scappammo in tempo, e andammo in casa del suo collega, dove riuscimmo a nasconderci dalla legislazione fascista. Per questo, alla fine non siamo mai stati esposti a un pericolo diretto dei nazisti e fascisti, perché mio padre e il suo amico furono capaci di mimetizzare la famiglia.
Cosa ricorda in particolare del periodo della persecuzione e della guerra?
Ero un bambino, ma ho dovuto crescere in fretta! Posso dire che, sebbene avessi 8 anni, “ho fatto la guerra”. Mi ricordo un po’ tutto. Avevo 3 anni quando iniziò la persecuzione del 1938, di fatto sono cresciuto in un ambiente già sotto quell’effetto, mi sembrò perciò ovvio che andassi alle scuole ebraiche, e che fossi dichiarato di “razza ebraica”, di cui ovviamente non coglievo il senso denigratorio della cosa. In un certo senso, l’impegno dei genitori di allievare l’aspetto negativo psicologico per i figli è stato costante e concreto: anche i miei genitori hanno coperto l’orrore come abbiamo scoperto davvero dopo il 1945. Anche mia nonna è stata sempre molto dolce. Ricordo per esempio il marzo del 1945, certo non sapevamo che la fine della guerra fosse vicina, avevamo ormai pochi viveri, eravamo stanchi dalle fughe. Mio nonno, con l’aiuto della donna di servizio che era sempre rimasta con noi, fece le matzot in casa – mi viene da ridere pensando oggi alle pignolerie dei religiosi, all’idea di una gentile che ha fatto le matzot in montagna! – e festeggiammo così Pesach. Mio nonno, Emilio Jona, pur senza haggadà – troppo pericoloso tenerla – a memoria ne recitò la prima parte, perché era stato maskil in Ancona.
Come è nata la sua passione per l’agronomia?
Avevo 5 anni ed ero già appassionato dalle piante. Mio nonno materno, scomparso nel 1941, oculista, decise di comprare una cascina a Novi Ligure dove andavamo in villeggiatura. Fu lì che, in confronto agli spazi cittadini, mi ritrovai in un ambiente molto più piacevole, tra mais e frumento, i prati e il bestiame. In autunno poi si andava nel vigneto, e mangiavamo direttamente i grappoli dai filari, a me piaceva tantissimo, volevo fare il contadino, e così mi sono laureato in agraria. Mi sono laureato in Italia, poi feci un’esperienza in Belgio a Lovanio, in America, successivamente, andai a New York, mantenendomi con una borsa di studio per vivere lì 1 anno con mia moglie. Da New York ci traferimmo all’istituto di biologia molecolare in Florida, dove è nato mio figlio, a Tallahassee.
Il 22 aprile si è celebrata la giornata mondiale della Terra. Quali sono le condizioni di salute del nostro pianeta, a suo avviso?
Il discorso è molto complesso e va articolato. Ci sono indubbiamente degli elementi di inquinamento e soprattutto dei comportamenti inquinanti. Al tempo stesso, credo ci siano anche delle esagerazioni, come quella che rifiuta i concimi. I concimi, come i farmaci, sono necessari. Azoto fosforo e potassio sono essenziali per le piante. In Italia Montecatini, poi Montedison, sono diventate aziende fondamentali per lo sviluppo dell’agricoltura, ma non ha senso rinunciare a nutrire le piante perché il nutrimento è prodotto da un’azienda “capitalista” Certo è importante educare i contadini all’uso corretto dei concimi, perché un effetto distorto dalla cupidigia dei venditori penalizza l’ambiente, ma non bisogna nemmeno cedere a scelte motivate esclusivamente da estremismo politico.
Nella sua formazione professionale, la sua identità ebraica quanto ha influito? C’è, per così dire, un “approccio ebraico all’agronomia”?
Sì e no. Nella golà, no. Come ebreo, in Israele, avevo contatti particolari con una realtà estremamente avanzata, e avendo potuto andare più volte e lavorare lì ho imparato una quantità enorme di nozioni e la mentalità israeliana, tutta particolare, specie per l’agricoltura, perché Israele è in condizioni molto avverse eppure di primissimo livello. Avere avuto accesso a questo tipo di agricoltura mi ha arricchito molto rispetto agli altri e mi ha dato vantaggi molto avanzati rispetto all’agronomia italiana. Da questo punto di vista essere ebreo mi è servito.