Nella nostra comunità c’è un problema di rispetto
Nel mese dedicato in tutto il mondo all’identità LGBTAI+, Ariel Heller, attivista della nostra comunità, mette in evidenza il rischio di intolleranza che serpeggia nel mondo ebraico, a partire dal luogo che dovrebbe essere più inclusivo: la nostra scuola
Ariel, abbiamo già intervistato Raffaele Sabbadini, vice-presidente di MDKI, ma confesso di non conoscere ancora completamente la realtà LGBTQAI+ nella nostra comunità e in generale nell’ebraismo italiano. Cosa puoi dirmi al riguardo?
Ti ringrazio di questa opportunità, perché in effetti sono in molt3* a non sapere. A volte si fa quasi passare l’idea che la comunità LGBTQAI+ [Lesbica, Gay, Bisessuale, Transgender, Queer, Intersessuale, Asessuale, +, ndr.] ebraica sia separata dal mondo ebraico. Al contrario, in Italia, è nata sei anni fa la prima organizzazione LGBTQAI+ italiana, Magen David Keshet Italia (MDKI) di cui sono responsabile della sezione giovan3. Personalmente sono anche membro del board e supervisore per Europa e Israele di Keshet Gava’ah | The World Jewish LGBTQAI+ Congress.
Come siete organizzati?
Magen David Keshet Italia (MDKI) è un’organizzazione totalmente inclusiva formata da ebre3 LGBTQAI+ e non, da ebre3 ortodoss3, laic3 e reform, ma anche da non ebre3 che si riconoscono nella nostre battaglie. Da statuto ci occupiamo di monitorare e contrastare gli atti di omobitransfobia dentro e fuori la Comunità, oltre che di monitorare atti di antisemitismo e antisionismo nella società e all’interno dei movimenti di attivismo LGBTQAI+.
Dicevamo dei numeri.
Numeri precisi non è possibile farne. Diciamo che le statistiche più attendibili stimano in circa il 10% la quota di LGBTQAI+, in ogni gruppo sociale. Quindi, anche nel mondo ebraico che in questo non è differente dal resto del mondo. So che qualcuno crede che ciò non appartenga all’ebraismo perché incompatibile con i suoi valori, ma nella realtà non ci sono fondamenta per fare tale affermazione. Tra l’altro questo ci porta ad essere ancora più espost3 a discriminazioni.
Che vuoi dire?
Diciamo che continuando come ora siamo espost3 a discriminazioni sia dentro la Comunità Ebraica, a causa del nostro orientamento sessuale e della nostra identità di genere, sia fuori, da frange di gruppi LGBTQAI+ perché ebre3 e sionist3. Questo causa enorme confusione e smarrimento nell’individuo. Nei nostri obbiettivi quindi non c’è di certo la ‘promozione’ dell’omosessualità, se non altro perché essere omosessuali non è una “scelta” che si può condizionare ma è piuttosto una condizione identitaria.
Togliamoci subito il dente: molti lettori staranno già pensando che le pratiche omosessuali sono vietate dalla Torà.
A questa osservazione rispondo in due modi. La prima è l’ebraismo non è solo un credo religioso. Essere ebre3 significa fare parte di un popolo e io sono pienamente dentro il popolo ebraico e questa comunità. Il secondo punto è che noi di MDKI ci battiamo con un progetto preciso: rispettare il prossim3, rendere la comunità più inclusiva e denunciare le discriminazioni per sconfiggere l’omobitransfobia. Quest’ultima non è ammessa dalla legge ebraica!
Parliamo di omobitransfobia, allora. È un rischio nella nostra comunità?
Certo! Oggi c’è una vera emergenza riferita alle questioni legate all’omobitransfobia soprattutto per l3 ragazz3 che non vivono apertamente la loro condizione.
A cosa ti riferisci?
Ai pregiudizi, ai linguaggi di odio, alle discriminazioni e alle esclusioni. Nella maggior parte dei casi si preferisce ignorare il problema, facendo finta che non esista, che quell3 ragazz3 non esistano. In questo io vedo anche il rischio di ipocrisia: sarebbe infatti ipocrita che, come ebre3, ci battessimo contro l’antisemitismo, per poi non lottare anche contro le discriminazioni omobitransfobiche.
Come si fa concretamente a combattere l’omobitransfobia?
In primo luogo indagandone le cause che, come per l’antisemitismo, sono differenti per la loro matrice e specificità da tutte le altre forme di discriminazioni. Lo si fa inoltre chiarendo chi sono le vittim3 dell’omobitransfobia, vale a dire l3 person3 che appartengono al mondo LGTBQAI+, con le quale non possiamo esimerci dall’avere un dialogo per comprenderne le rivendicazioni. Abbiamo necessità di educare l3 giovan3 al rispetto con dei progetti specifici nella scuola per far sì che l3 person3 LGBTQAI+ si sentano tutelat3 e vivano davvero quel senso di “comunità”. Essere una comunità vuol dire avere una connesione, supporto, forza, calore. Una comunità esiste se c’è davvero lì qualcuno che ti copre le spalle, veglia su di te, ci si protegge l’un l’altro, ti ascolta, e si cura del fatto che tu stia bene. Mi auguro di riuscire ad avere un dialogo proficuo, innanzitutto con le nostr3 istituzioni. È per questo che abbiamo proposto un progetto educativo contro l’odio omobitransfobico.
Parliamo di questo progetto, allora.
È stato pensato per la nostra scuola dove non si parla di omobitransfobia Questo è tanto più grave perché nascondere il tema significa lasciare sol3 le person3 e metterl3 a rischio, lasciando mano libera a linguaggio d’odio. Il tacere, per “proteggere dai problemi”, è in realtà un danno al sano e spensierato sviluppo psicofisico e socio-culturale dell3 adolescent3 durante la presa di coscienza del proprio essere. Dobbiamo invece combattere tutt3 insieme; se posso dire così, dobbiamo eliminare il “privilegio” di chi si illude che può ignorare il problema perché non lə riguarda.
A scuola stai provando a portare un progetto di educazione e lotta all’omobitransfobia.
Sì, il progetto non tocca in alcun modo gli aspetti religiosi, perché è importante che sia la Rabanut a dare le giuste risposte su questo; noi ci occupiamo e parliamo di rispetto e lotta ai linguaggi d’odio. Non è possibile che la nostra scuola si sottragga al suo compito di educare al rispetto dell’altr3.
Puoi descrivere nel dettaglio il progetto presentato?
Si tratta di indicare le cause del pregiudizio, sotto il profilo storico, politico e sociologico. È articolato in 4 parti.
Nella prima parte facciamo chiarezza sulla terminologia: cosa significano, tra le altre, identità di genere e orientamento sessuale. Questi due concetti che ci aiutano a leggere la sigla LGBTQAI+, analizzandone ogni lettera che rappresentano l’iniziale delle varie comunità di person3 che vivono queste discriminazioni. Sempre in questa parte facciamo uno specchietto su che cosa vuol dire essere ebre3+LGBTQAI+ e in particolare sulle discriminazioni che vive questa parte della nostra Comunità.
Con la seconda parte analizziamo una serie di stereotipi affibbiati alla comunità LGBTQAI+, evidenziando come maggiore sia la rappresentatività delle singole comunità e maggiore sia la presenza di stereotipi. Alcune delle comunità della sigla non ne hanno perché finora non avevano un nome. Se le cose non hanno un nome, di fatto, non esistono. Nella terza parte facciamo un rapido excursus sull’evoluzione delle legislazioni punitive nei principali paesi europei, evidenziando come fossero legate allo sviluppo dell’omotransfobia. Facciamo poi un focus sull’Italia, il cui caso di mancanza di leggi repressive non equivale a un miglior trattamento quanto alla volontà negazionista della pura esistenza della comunità LGBTQAI+; caso che si riflette anche nella microesperienza della nostra Comunità. Infine, nell’ultima parte, ascoltiamo alcune testimonianze tra cui la mia.
Secondo te c’è un problema di omofobia nella nostra scuola?
So che in passato un insegnante se ne è andato perché oggetto di commenti omofobi da parte di alcun3 student3. Anche di recente ci sono stati episodi ostili molto gravi, che sono rimasti silenti. Alcun3 sono stat3 addirittura caldamente invitat3 a modificare il loro aspetto estetico. Io sono convinto che, se c’è un clima ostile, nessuno dell3 ragazz3 LGBTQAI+ porterà mai in quell’ambiente la propria identità. Questo significa che oggi a scuola ci sono persone in difficoltà. Io, per esempio, a scuola non ho mai parlato per il clima che c’era. Per questo sono convinto che non possiamo sottrarci dal promuovere progetti educativi di vera inclusione.
Cosa richiedete alla CER?
Abbiamo richiesto con una lettera inviata al Consiglio della CER di occuparsene e rompere questo silenzio che circonda l3 person3 LGBTQAI+ e gli episodi di omobitransfobia. Chiediamo di agire ascoltando e valutando il nostro progetto, permettendoci di portarlo nella scuola. Le prime reazioni di chi è interventə in Consiglio sulla lettera sono state tutte positive. Faccio, tuttavia, un appello perché al progetto non ci sia ostracismo e un veto pregiudiziale ma sia piuttosto valutato dallo stesso Consiglio perché per parlare e decidere occorre prima conoscere. Mi auguro che nel frattempo non accada nessun ulteriore gesto clamoroso di omobitransfobia che poi obblighi ad agire in fretta. Voglio far ragionare anche l3 person3 che all’inizio si erano oppost3; dobbiamo portare il progetto avanti tutt3 insieme. Se lo facesse solo una parte della Comunità anche questa sarebbe una esclusione.
La situazione è così grave?
A scuola sì. Per fortuna ci sono anche alcuni punti positivi. Un mese fa abbiamo tenuto un grande evento al Pitigliani dove un vasto pubblico della nostra Comunità ha preso parte e dove erano presenti tantissim3 giovan3; in particolare sono intervenuti anche i rappresentanti di UGEI, GET e Hashomer Hatzair. Di recente sono stato anche invitato a uno shabbaton Ugei, che sta prendendo molto seriamente la questione, tanto che tutt3 l3 present3 hanno partecipato alla mia attività, finalizzata a far conoscere la nostra realtà. Grande gesto è stato anche quello del Consiglio dei Giovani Ebrei Torinesi (GET) che si è in blocco iscritto a MDKI. È stato un gesto che ho particolarmente apprezzato, e spero che venga replicato anche dall3 ragazz3 delle altre Comunità. Sarebbe un gesto simbolico e inclusivo.
Un’ultima domanda, se vuoi: per te è stata dura emergere dal silenzio?
Come ti ho detto, io a scuola non ho fatto coming out, e questo credimi crea problematiche psicologiche molto forti nell’individuo, a tal punto che lasciato il liceo mi sono completamente allontanato dalla Comunità, perché mi sono sempre sentito escluso. È questa la condizione di ogni membro della comunità LGBTQAI+. Quanto a me, fare coming out all’interno della Comunità è stata una specie di liberazione e vuol dire fare un gesto politico trasformando questo aspetto della mia identità da un punto di debolezza ad una bandiera. Oggi che vivo in modo aperto la mia identità, posso dirti che ottengo molto più rispetto. E trovarmi oggi ad organizzare uno shabbaton con UGEI e Get a Roma dal 10 al 12 giugno è per me un motivo di grande orgoglio.
* Nell’intervista si è utilizzato il simbolo 3 al posto della desinenza femminile o mascihle, per definire un gruppo misto di persone
Una risposta
Nessuno deve mai essere escluso, la persona vale per i suoi comportamenti e per il rispetto che ha nei confronti di ogni essere umano.
Insegniamo questi semplici concetti ai nostri bambini, vivere in armonia con tutti è possibile quando l’educazione data li mette difronte al fatto che i “diversi” sono solo quelli che si cibano di pregiudizi.