La mia vita…tra Europa e gli USA (fine)
Lisa Palmieri-Billig racconta a Riflessi come gli ebrei americani guardano al conflitto post 7 ottobre
In questo momento, la risposta alla tua domanda dev’essere per forza fluida, dato che ci troviamo a combattere una guerra esistenziale. Un giorno ci saranno valutazioni approfondite, diverse e probabilmente piuttosto contrastanti, e discussioni vivaci (come succede sempre tra ebrei) sulle decisioni prese dal governo israeliano riguardo la guerra, la pace, le riforme giudiziarie, la scelta dei ministri del governo, ed il futuro politico dello stesso Primo Ministro Netanyahu. Sanno quanto sia fondamentale, particolarmente ora, sostenere Israele e il suo governo democraticamente eletto, qualunque esso sia, contro i suoi nemici mortali. Questo precetto costituisce la forza unificante delle organizzazioni ebraiche mondiali nate per garantire la sicurezza ed il benessere del popolo di israele in tutto il mondo, della diaspora e naturalmente ora anche dello stato di israele. Nel clima odierno di crescente antisemitismo, il dissenso ebraico interno produce ansia e può alle volte essere interpretato, dalle sensibilità esasperate, come un tradimento che porta a dover guardare a destra con un occhio e a sinistra con l’altro. Come ha detto di recente il Prof. Yehezkel Landau, impegnato da sempre al dialogo interreligioso per la pace, “È sempre rischioso criticare la politica israeliana dato che i nemici di Israele sono sempre pronti ad utilizzare qualsiasi critica come arma contro lo Stato ebraico….”.
Ogni ebreo che muore viene rimpianto come un fratello o una sorella, come un figlio o una figlia. Il massiccio rientro in patria degli israeliani che si trovavano fuori casa subito dopo il 7 ottobre; il ritorno volontario e immediato dei giovani israeliani che studiavano o lavoravano all’estero, che si sono messi a disposizione come soldati o in qualsiasi altra veste per rendersi utili; l’amore per Israele, l’amore per la famiglia ebraica mondiale, vanno ben oltre qualsiasi critica interna al governo, anche la più appassionata. Questo vale sia per gli ebrei della diaspora, americani o europei, sia per quelli israeliani. Oggi è in gioco la sopravvivenza non solo dello Stato di Israele e di tutta la diaspora, ma della stessa civiltà occidentale che si basa sui diritti umani, sulla libertà e sulla democrazia. Il momento per i giudizi politici seguirà l’avvento della pace e la sconfitta di questa minaccia mortale.
No, l’opinione pubblica non sta assolutamente voltando le spalle a Israele e non va misurata in base al rumore che produce, anche se la copertura mediatica del lato tragico della guerra diventa ogni giorno più incalzante e faziosa. Ricordiamo che in un sondaggio nazionale condotto nel maggio 2024, tra le 9 questioni più importanti per gli studenti, quella arrivata di gran lunga ultima è stata il conflitto in Medio Oriente. Inoltre, il 67% di loro ha dichiarato che l’occupazione di immobili è inaccettabile e l’81% ritiene che i manifestanti debbano essere ritenuti responsabili per i danni arrecati alle proprietà. Il Times of Israel del 24 maggio ha evidenziato che le proteste e gli accampamenti anti-Israele sono più diffusi nelle università statunitensi “d’élite” che in quelle meno esclusive, dove studiano un maggior numero di studenti di famiglie a basso reddito, e un sondaggio di GenerationLab pubblicato da Axios ha rilevato che il 92% degli studenti si è rifiutato di partecipare alle manifestazioni. È necessario, tuttavia, esaminare l’influenza perversa esercitata sugli studenti da una certa élite di intellettuali “woke” a cui viene data libertà di agire come cattivi maestri nelle università, promuovendo interventi di propagandisti palesemente menzogneri come l’attuale “Relatore Speciale sui Territori Occupati” dell’ONU, che descrive gli USA come “soggiogati dalla lobby ebraica”, l’Europa come pervasa dal “senso di colpa per l’Olocausto” e Israele come “occupatore coloniale” e “Stato di Apartheid”. L’odierna nuova era di censura politica impedisce purtroppo di consentire la confutazione fattuale del loro veleno da parte di ricercatori in buona fede, esponendo pericolose crepe nella democrazia americana.
Esaminiamo i fatti: quanti manifestanti nei campus sono studenti e quanti sono fomentatori esterni, finanziati da potenze straniere? Quando l’ex presidente della Columbia University, Minouche Shafik, ha chiesto l’intervento della polizia di New York durante l’occupazione del 30 aprile, ha affermato che la maggior parte dei manifestanti non erano universitari. Inoltre il sindaco di New York Eric Adams ha riferito che 32 delle 112 persone arrestate nel campus della Columbia erano “agitatori professionisti cooptati dall’esterno con una carriera di escalation delle situazioni e di tentativi di creare disordini”. Nel vicino City College, “102 dei 170 arrestati non erano studenti”. Bisogna comunque ricordarci che dal 2001 al 2021, gli istituti di istruzione superiore statunitensi hanno ricevuto un totale di 13 miliardi di dollari in finanziamenti esteri di cui 4,7 miliardi dal solo Qatar. La Cina ha stipulato contratti per oltre 140 milioni di dollari con la NYU dal 2020 al 2023. E tra i finanziatori internazionali c’è il Qatar – i cui legami con il mondo accademico statunitense risalgono agli anni ’70 – che ha investito per decenni ingenti somme negli Stati Uniti per finanziare cattedre e creare nuovi dipartimenti sul Medio Oriente nelle università più prestigiose; dal 2020, Harvard ha ricevuto $8 milioni, Cornell 1,5 miliardi dal 2015.
La maggioranza degli ebrei americani confida sempre che chiunque sia al governo, l’America manterrà la tradizionale alleanza con Israele forte come sempre da quando è nata, garantendo la sua sopravvivenza e sicurezza. E se dovessero emergere questioni delicate, le voci dei rappresentanti dell’ebraismo americano e dei molti amici di Israele sono destinate ad esprimersi liberamente e a farsi sentire, come infatti hanno già cominciato a fare. Le organizzazioni ebraiche hanno immediatamente comunicato le loro priorità in una moltitudine di dichiarazioni che, tra gli altri argomenti, si sono concentrate sulla lotta concreta contro l’estremismo e l’aumento dell’antisemitismo negli Stati Uniti, con particolare attenzione ai campus universitari, sul rafforzamento e sull’espansione delle relazioni tra Stati Uniti e Israele, la salvaguardia e l’espansione degli Accordi di Abramo per l’integrazione regionale, la sconfitta di Hamas e Hezbollah, la repressione delle attività criminose dell’Iran, la salvaguardia del benessere di tutte le minoranze, e il loro apprezzamento per il “riconoscimento a lungo atteso di Gerusalemme come capitale di Israele” da parte della precedente amministrazione Trump, come dichiarato tra altri dall’AJC, ecc.. Queste organizzazioni rappresentano tutte le correnti dell’ebraismo americano, dalla sinistra politica alla destra conservatrice, dall’ortodossia religiosa all’ebraismo liberale e riformato. Le preoccupazioni economiche basate sull’inflazione, la questione dell’aborto, la preoccupazione per i piani di Trump di deportare gli immigrati clandestini e i loro figli di seconda generazione, erano diffuse tra gli elettori americani di tutte le origini sociali, etnici e religiosi. Tutte le organizzazioni ebraiche hanno poi espresso la volontà e la speranza di una cooperazione bi-partisan. Tra coloro che hanno inviato messaggi concreti al presidente Trump figurano l’AJC (American Jewish Committee), l’ADL (Anti-Defamation League), l’AIPAC, il WJC (World Jewish Congress) e tutte le correnti della religione ebraica rappresentate dall’Unione ortodossa, dall’Assemblea rabbinica, dal movimento Reform e dall’HIAS – la Hebrew International Aid Society, molto attiva durante la seconda guerra mondiale e impegnata da allora a offrire aiuto agli immigrati di tutte le religioni e nazioni. Mentre il voto degli ebrei americani è stato fortemente orientato verso Kamala Harris, ora si impegneranno al sostegno del nuovo presidente democraticamente eletto in America, esattamente come hanno fatto con l’attuale governo israeliano, al fine di proteggere gli ideali espressi in queste dichiarazioni iniziali.
Una risposta
USA sempre più chiusi su se stessi e offesi dalla “ingratitudine” europea.