Chanukkà, il miracolo e la pace
Stasera inizia “la festa delle luci”. Su Riflessi Massimo Giuliani ci svela l’interpretazione di Maimonide, che, in tempi angusti come quelli di oggi, è un invito alla fiducia (e all’azione)
È noto che non esiste nella Mishnà un trattato dedicato a Chanukkà, e di conseguenza non c’è un omonimo trattato del Talmud. Si tratta infatti di una delle feste di istituzione rabbinica e la spiegazione data dai maestri di Israele per questi otto giorni di festa, nei quali liturgicamente si recita l’Hallel intero (segno di redenzione piena), si trova nel trattato talmudico Shabbat 21b e 23a-b, sebbene rimandi a questa festività sono sparsi in molteplici fonti soprattutto midrashiche. I maestri ripetono che si tratta di una festa di ringraziamento e di gioia, dove non bisogna lamentarsi né digiunare. Maimonide ne fa esplicita trattazione nel terzo libro (Sefer zmanim) del suo Mishnè Torà, il cui dodicesimo e ultimo trattato si intitola Meghillà va-chanukkà (dove meghillà sta per la festa di Purim, cui però è dedicato anche un trattato talmudico). Con un’enfasi speciale sul significato dei lumi, o del “lume” che resta acceso per otto giorni, scrive dunque il Rambam: «Il precetto di accendere la chanukkià [il candelabro a nove braccia, otto più uno, lo shamash] è estremamente prezioso e va osservato con grande attenzione al fine di celebrare il miracolo, lodando e ringraziando il Signore benedetto per i miracoli che ha fatto per noi».
Ora, Maimonide non è uno incline a vedere miracoli a destra e a manca, e appena può, degli eventi straordinari, cerca di dare le spiegazioni più naturali possibile. In questo caso, egli usa senza riserve il termine miracolo, nes/nissim, a rimarcare che le circostanze storiche erano così sfavorevoli che la vittoria degli asmonei (o maccabei) non era per nulla scontata. La restaurazione del culto monoteista nel Tempio, la ripresa dei sacrifici kasher e il pieno controllo politico su Gerusalemme furono davvero miracolosi, nel senso più popolare del termine. Ne deriva che questa è, o dovrebbe essere, una festività di popolo, una festa politica ossia pubblica. Come si segnala questa “politicità” di Chanukkà? Lo spiega con chiarezza il settimo rebbe di Lubavitch, Menachem Mendel Schneerson, quando ricorda che i lumi della chanukkià devono essere accesi presso la porta di casa, o nel cortile (per chi ce l’ha), il più possibile verso l’esterno della casa, verso l’area pubblica; e in più andrebbero messi accanto allo stipite sinistro della porta o del cancello. Non sono, ovviamente, dettagli insignificanti, bensì altamente simbolici: «Lo scopo dei lumi è quello di illuminare l’esterno, la proprietà pubblica [la reshut ha-rabbanim ossia la proprietà dei molti]; la parte sinistra [o sitrà achrà, in aramaico, che nella qabbalà indica il lato oscuro del Divino e del mondo] è da dove muove la cattiva inclinazione e donde si genera disunità ed estraneazione».
Consapevole di questi significati della mitzwà, la chassidut di Lubavitch ha sviluppato l’abitudine dell’accensione pubblica di monumentali chanukkiot, con tanto di inviti alle pubbliche autorità, in mezzo a piazze importanti delle città occidentali (a Roma in Piazza Barberini, a Milano in Piazza San Babila), onde rimarcare che il messaggio di questa festa ebraica nasce sì da un miracolo particolare, la storia di un piccolo orcio di olio, una minuzia nel grande conflitto tra ebrei e “greci” (i seleucidi, che volevano imporre l’ellenismo con la coercizione), ma si espande e diviene un emblema universale – politico appunto – di libertà religiosa, base dei diritti elementari di ogni popolo e cultura.
Maimonide sembra indicare questa dimensione politico-morale del precetto dei lumi di Chanukkhà in modo per noi paradossale. Infatti nel suo trattato halakhico sopra menzionato ricorda che, nel caso di un ebreo povero che debba scegliere cosa comprare, se i lumi della casa oppure l’olio per la chanukkià oppure il vino per il qiddush, ebbene, che scelga i lumi necessari a illuminare la casa (ner beitò) “a motivo della pace della sua casa”. Che significa? La mancanza di luce in una casa può portare a dispute e conflitti, e lo shalom ha-bait deve prevalere sempre, perché persino la Torà prevede che il Nome benedetto venga annullato al fine di mettere pace tra un marito (geloso) e sua moglie. Maimonide conclude con l’affermazione: «Grande è la pace, dal momento che l’intera Torà è stata data per creare la pace nel mondo, come è scritto: “Le sue vie sono vie di dolcezza e tutti i suoi sentieri sono pace” (Mishlé/Proverbi 3,17)». Questo rimando al primato della pace in famiglia, che è la cellula base di ogni comunità e di ogni unità politica, è sorprendente: la luci pubbliche di Chanukkà ricordano questo ideale di shalom ha-bait, nel segno della libertà e dei valori, tra i quali, al primo posto, ci sta lo shalom inteso come armonia e sicurezza, il più politico dei beni simboleggiato qui dalla luce che illumina nel micro come nel macro i rapporti umani.
Anche Chanukkà si “piega”, per così dire, alla grandezza della pace: se pressati da dura necessità, si rinunci persino ai lumi di questa festa ma non si smetta di perseguire lo shalom ha-bait (e si sa, bait in ebraico significa tanto casa/famiglia quanto casa/nazione). Se non lo avesse scritto il Rambam nel suo trattato su Chanukkà, chi avrebbe avuto l’audacia di scriverlo?
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Grazie!