Come passavi il tempo nell’attesa di sostenere l’esame di ammissione e della risposta?

Nel mese di settembre la mattina andavo a studiare a volte in una yeshivà (mi sembra Devar Yerushalaim) dove c’erano alcuni miei amici del B.A. di Milano. Ma per la maggior parte stavo nel bel campus di Ghivat Ram (quello dell’Har haTzofim – il Monte Scopus – era solo agli inizi della costruzione).

la Biblioteca nazionale di Gerusalemme, oggi

Andavo alla Sifrià Leumit, la Biblioteca Nazionale, nel bel mezzo del campus, a studiare libri “sacri” ma non solo. Leggevo o prendevo in prestito anche libri in italiano. All’uscita della sala della biblioteca c’era uno shomèr (custode) che controllava le borse per assicurarsi che uno non portasse via libri senza il permesso. Un giorno, lo shomèr di turno, che avevo già visto diverse volte, lesse ad alta voce il titolo della pubblicazione che avevo preso in prestito e disse: “Màim midolyàw” (il titolo è una citazione da Numeri 24:7 e significa “l’acqua (stilla) dai suoi recipienti”). Capii che era interessato a quel testo. Allora gli dissi: “Sì, però si pronuncia midaleyàw”. (È una questione legata al qamàtz qatàn, una regola grammaticale ebraica, secondo cui in certi casi il qamàtz, la vocale “a”, si pronuncia “o”; a volte c’è incertezza e ci si basa sulla tradizione di lettura). Lo shomèr ci pensò un attimo e poi mi disse: “Hai ragione, midaleyàw”. Questo breve colloquio mi sorprese, tanto è vero che me lo ricordo ancora come se fosse ieri. Lo raccontai a qualcuno che mi disse che quello shomèr, dall’apparente aria assente, era un sopravvissuto alla Shoah (uno dei tanti, in Israele, in quegli anni) e prima della catastrofe era stato un brillante fisico.

Nechama Leibowitz riceve un premio all’Har hatzofim

Sul prato del campus a volte vedevo passare Nechama Leibowitz, la Morà di tutti i morim di Torah, come è stata definita da rav Benny Lau.

Qualche tempo dopo vidi passare l’altrettanto famoso fratello, Yeshayahu Leibowitz, che all’Università ebraica aveva insegnato in passato Chimica organica e Neurofisiologia e in quegli anni insegnava Storia e filosofia della scienza. Una volta andai a sentire una sua conferenza in un grande auditorium del campus, talmente affollato da trovare a mala pena posto e molti rimasero in piedi. Lo andavano a sentire tutti, pure (o soprattutto) quelli che lo contestavano per le sue posizioni iper-critiche della politica israeliana, anche perché ogni sua performance si rivelava una specie di show.

Yeshayahu Leibowitz nel campus di Ghivat Ram

 

Una trentina d’anni dopo, nel 2009, ebbi il merito di ricevere in regalo dal figlio di Leibowitz, Yossi, un paio di casse di libri dalla vastissima biblioteca di suo padre, morto nel 1994. I parenti – che dopo la morte della moglie di Leibowitz, Greta, nel 2001, volevano liberare la casa – distribuivano quanti più libri potevano ai loro amici e conoscenti, fra cui Sandro Servi, di Firenze. Sandro lo disse a me e io lo dissi a mio figlio Jacov. Insieme a Yossi andammo tutti e tre nella casa a Rechov Ussishkin  e ognuno prese i libri che maggiormente lo interessavano. Io scelsi soprattutto quelli su questioni scientifiche (storia e filosofia della scienza, teoria dell’evoluzione, Darwin, origine della vita) e quelli sull’ebraismo italiano (fra cui il Meor Enayim di Azarya de’ Rossi, nato a Mantova nel XVI secolo, uno dei maggiori testi di impostazione critica prodotto all’interno del mondo rabbinico, duramente attaccato dal contemporaneo Maharal di Praga –

Meor Enayim di Rabbi Azaria De’ Rossi

. Nechama e Yeshayahu Leibowitz, anni dopo, sarebbero diventati entrambi punti di riferimento essenziali per i miei impegni in campo ebraico.

Incontrasti rabbini italiani durante la tua permanenza in Israele?

Sì. Nell’estate del ’73, appena arrivato in Eretz, si pose per me un problema halakhico. Quell’anno era il 5733, un anno sabbatico (come l’anno da poco concluso, 5782). Ogni sette anni la terra d’Israele deve “riposare”, in analogia con il riposo sabbatico settimanale per le persone. Non si può lavorare la terra, se non con attività strettamente necessarie per il mantenimento delle piante e del terreno. Per esempio, si può irrigare ma non si può concimare o arare. Né si possono commerciare i prodotti nati spontaneamente. In uno Stato ancora giovane e fortemente dipendente dall’agricoltura come era a quei tempi Israele, non lavorare la terra per un anno intero comportava non pochi problemi. Una soluzione, permessa da rav Kook (il primo rabbino capo ashkenazita in Eretz Israel), fu di vendere la terra alla popolazione non-ebraica. In questo modo il divieto di lavorarla non sussisterebbe.

Yeshayahu Leibowitz

Questa soluzione fu adottata dal rabbinato d’Israele anche per tutti gli anni sabatici successivi ma non venne accolta dal Chazon Ish, e dato che, come ho detto prima, nella yeshivà di Strasburgo dove avevo studiato si seguivano le decisioni halakhiche del Chazon Ish, più rigorose, quell’anno in yeshivà non si mangiavamo prodotti provenienti da Eretz Israel. In Francia tali prodotti non erano tanti, per cui non era un gran problema, ma una volta arrivato in Israele lo diventò per me. Stavo per lo più tutto il giorno nel campus e mangiavo nelle locali caffetterie, che vendevano prodotti dell’anno sabbatico sulla base del permesso del rabbinato centrale. Se avessi continuato a seguire la norma rigorosa del Chazon Ish, sarebbe stato un reale problema di sussistenza. Ma per basarmi sul permesso del rabbinato, dovevo fare una sorta di “scioglimento di voto”, una procedura che si fa interpellando un rabbino.

(continua a pag. 3)

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