Vi racconto la comunità ashkenazita
Alberto Heimler, attuale presidente del Tempio ashkenazita, racconta la storia di una comunità costituita nel dopoguerra, che a via Balbo oggi si integra con la componente degli ebrei libici
Dottor Heimler, cominciamo da lei. Lei non è romano, cosa l’ha portata a vivere in questa comunità?
E della sua famiglia?
I miei genitori zl erano di Fiume, ebrei italiani, ma di origine ungherese. Con le leggi razziali, mio padre si trasferì a Firenze, provando a trovare un’attività nonostante le leggi sempre più persecutorie. Dopo essersi rifugiati in Svizzera i mei genitori tornarono a Firenze dopo la guerra. A Firenze c’era allora una piccola comunità di ebrei ashkenaziti di cui anche noi facevamo parte; le funzioni religiose si svolgevano nella vecchia sinagoga dell’ex ghetto a via delle Oche, vicino a piazza del Duomo, in un palazzo poi venduto all’inizio degli anni Sessanta per costruire la nuova scuola ebraica; così la comunità ashkenazita si trasferì nella palestra della scuola. Da circa 50 anni quella comunità non esiste più.
E quanto a lei? Si è sempre ritrovato nella tradizione ashkenazita?
E a Roma? Come è stato l’impatto con la comunità locale?
A Roma, appena arrivato, inizialmente non ho seguito molto la vita comunitaria. Certo, andavo al Tempio per i moadim, ma per il resto facevo poco altro. Fino a quando, grazie anche a mia moglie, interessata a “riscoprire” il suo ebraismo, ho cominciato un percorso di maggiore osservanza.
Immagino che frequentasse la comunità ashkenazita.
Sì, l’ho sempre frequentata, perché anche la mia prima moglie era ashkenazita e seguivamo le tradizioni di famiglia. Al Tempio mi aveva da sempre incuriosito rav Hazan. Era allora un giovane rabbino, appena arrivato in Italia, ed ero molto attratto dal suo modo di porsi: era infatti un rav molto aperto e disponibile verso gli altri, molto accogliente e aperto, in grado di dare risposte ai diversi gradi di spiritualità delle persone che si rivolgevano a lui.
Lei attualmente è presidente del Tempio ashkenazita.
Sì, dal 2016. Il mio compito principale è garantire il finanziamento delle spese del Tempio e anche di tenere il Tempio “in ordine”. Negli ultimi anni abbiamo completato la sua integrale ristrutturazione. Inoltre insieme a rav Hazan mi occupo dell’organizzazione dei servizi religiosi. Il tempio è infatti aperto tutti i giorni.
Ci può parlare della comunità ashkenazita romana?
Si tratta di una comunità sorta a Roma dopo la liberazione del 1944; era in gran parte formata da persone che si erano rifugiate nel Sud Italia, alcuni erano stati internati nel campo di Ferramonti, altri, in fuga dai nazisti, erano riusciti a passare la linea del fronte e si erano ritrovati a Bari. Dopo la liberazione molti di loro vennero a Roma. Erano un gruppo cospicuo, che inizialmente pregava nei locali della Cer a via de Pretis, e poi, dalla metà degli anni 70, a via Balbo.
Fu creato un Tempio ashkenazita proprio per accogliere questa comunità?
Sì. A via Balbo vennero riadattati i locali che all’epoca ospitavano gli alloggi del custode, oltre allo spazio per il forno delle azzime per Pesach: tutta l’area venne destinata alla realizzazione dell’attuale Tempio ashkenazita su progetto dell’architetto Angelo Di Castro.
Ci può dire qualche altra cosa sulla storia del Tempio?
All’inizio il Tempio era autogestito. C’erano infatti famiglie di tradizione e di osservanza tali da essere in grado di gestire i servizi religiosi. Dalla seconda metà degli anni Settanta è arrivato rav Hazan. Tuttavia Il Tempio non era aperto nei giorni feriali, come oggi; l’apertura quotidiana fu avviata negli anni Novanta su iniziativa della famiglia Kahlun.
E della comunità ashkenazita originaria, oggi che mi dice?
Che minhag si segue?
Il minhag è ashkenazita per shabbat e i moadim, sia pure con alcune “flessibilità”; nei feriali invece seguiamo il rito italiano o quello tripolino, a seconda del chazan.
Che differenze ci sono tra il minhag ashkenazita e gli altri utilizzati?
Direi, in generale, che il rito ashkenazita è più rivolto alla preghiera individuale, probabilmente perché il grado di istruzione e di conoscenza delle preghiere era maggiore tra gli ebrei ashkenaziti; quindi non c’è la necessità di una recitazione a voce alta, che invece si fa per far uscire d’obbligo chi non legge l’ebraico. Per chi è in grado di seguire, il nostro rito dà una possibilità di maggiore concentrazione, perché ciascuno è attore della tefillà, più che ascoltatore.
Come si è realizzata l’integrazione con gli ebrei libici nel “suo” Tempio?
Da noi c’è stata una integrazione totale. Come ho detto prima, questo è accaduto per lo più per merito di rav Hazan che è riuscito fin dal suo arrivo a integrare benissimo la comunità tripolina all’interno del nostro minhag che col tempo è diventato un multi-minhag.
Un’ultima domanda. Lei proviene da fuori Roma, e vive qui da circa mezzo secolo. Come è cambiata oggi la nostra comunità rispetto al passato?