Giorgia Meloni ha interpretato la sua vittoria politica, del tutto legittimamente, come il riconoscimento dello sforzo fatto di non entrare nella pratica politica intesa come compromesso. Questa è da sempre la prima condizione astratta del suo modo di fare politica. Tutto ciò, tuttavia, presume che non sia necessario un programma di quello che si vuole fare, ossia un insieme di obiettivi e di soluzioni ai problemi fondamentali da affrontare.

Giorgia Meloni,nel suo celebre comizio in Spagna, ospite del partito di destra Vox

Questo dovremo verificarlo alla prova dei fatti. Per adesso, come giudica il risultato del voto, in termini generali?

Io credo che con l’ultimo voto si sia verificato un cambiamento radicale del sistema politico.

Cioè?

Prendiamo i problemi strutturali del nostro paese e proiettiamoci nei prossimi vent’anni. Un sistema politico che lavori al futuro, deve sapere che problemi ha davanti, e che soluzioni si possono adottare. Inoltre, deve essere consapevole che ormai la politica non si fa solo sul piano nazionale, ma anche su quello internazionale. Quindi, occorre saper delineare anche delle alleanze politiche internazionali. Dopo il voto del 25 settembre e in corso un tentativo di ridisegnare il paese a partire da questi punti.

Giorgia Meloni e Victor Orban, sostenitore della “democrazia illiberale”

Proviamo allora a riflettere su dove intervenire. Oggi sembra esserci scarsa attenzione ai diritti sociali e individuali, che invece sono così presenti nella nostra Costituzione. Penso alle forti disuguaglianze economiche e sociali che si registrano non solo in Italia. Come si può produrre un modello culturale che sia davvero efficace nel proporre un modello diverso rispetto a quelli che abbiamo davanti?

Il modello alternativo si costruisce su due piani. Occorre partire dall’idea di futuro: che futuro si vuole? Occorre ripensare un modello diverso da quello rivendicativo delle sinistre del ‘900. Penso ad esempio al modello di Berlinguer, un modello che oggi ci interroga: a cosa sono disposto a rinunciare? Il nostro futuro, cioè, deve partire da un’idea di condivisione, non di accaparramento. Un nuovo modello dovrà avere l’obiettivo non di dare tutto a tutti, ma di fare in modo che qualcuno rinunci a quel che ha, in modo da riequilibrare l’insieme.

Non ritiene che sia estremamente difficile raggiungere il consenso sulla base di una rinuncia?

una delle “domeniche a piedi” del 1973, causate dalla crisi petrolifera successiva alla guerra del Kippur

No, solo però se riusciamo a uscire dal modello attuale. Penso ad esempio a quel che avvenne con lo shock petrolifero del 1973, e le famose domeniche a piedi. Anziché lasciarsi andare al pessimismo e alla disperazione, la necessità di rinunciare al mezzo abituale di spostamento provocò una grande ondata di creatività, non di sofferenza. Si colse la possibilità che da una sottrazione si potesse immaginare in modo diverso il presente, per migliorare poi il domani. Oggi non mi sembra che invece siamo pronti a una prospettiva del genere. Pensa al linguaggio delle destre sovraniste sul tema dei flussi immigratori: per anni abbiamo ascoltato la formula “dell’aiutarli a casa loro”. Questa formula, a prenderla seriamente e non come un semplice slogan, richiede la necessità di costruire un modello per le generazioni future, un diverso investimento economico, un diverso progetto nelle relazioni internazionali fra noi e i paesi dell’Africa. Tutto ciò richiede ingenti finanziamenti, e una consapevolezza che bisogna operare non sul piano etico ma su quello politico culturale ed economico.  In altre parole, il futuro politico di questo paese si giocherà sulla base di chi sarà capace non di far valere temi etici e morali, ma piani di investimento. Vincerà chi sarà stato in grado di elaborare e realizzare un progetto è un modello davvero efficaci.

Il futuro ci porta a ragionare sul nostro passato. Lei evidenzia come il regime di Mussolini abbia raggiunto una pervasività così profonda nel nostro paese da marcare una sostanziale continuità tra l’Italia precedente al 1945 e quella successiva: delle forme, degli uomini, degli apparati, dell’immaginario. Che effetto ha avuto tale continuità nella vita della Repubblica?

Gaetano Azzariti (1881-1961), presidente del Tribunale della razza, transitò nella repubblica fino a diventare presidente della Corte costituzionale

C’è stata certamente una continuità degli apparati istituzionali, nonché di tutte quelle strutture sociali ed economiche che costituiscono la politica pubblica, e poi c’è stata la continuità delle persone. Un sistema politico si caratterizza per tre operazioni che riesce a compiere: la prima è quella di dare un nome alle cose che fa, e quindi costruisce un apparato culturale; la seconda è che da una priorità alle cose da fare, quindi costruisce una gerarchia; la terza è ch costruisce un modello sociale politico e culturale in grado di orientare l’identità del cittadino. Ora, se esaminiamo questi tre aspetti, ci rendiamo conto che l’azione del fascismo non è stata una sua esclusiva. Voglio dire che il modello interventista nell’economia, gli altissimi tassi di corruzione del sistema pubblico degli investimenti, propongono un modello che poi è stato replicato anche in età repubblicana. Non basta. Quel modello, al netto dei difetti verificatisi in Italia, è molto simile a quelli praticati in altri paesi: penso alla Francia, all’Olanda, alla Svezia, persino all’Unione sovietica. In tutti questi paesi si crea un modello di risposta alla grande crisi economica del 1929. Ed è stato quel modello che l’Italia repubblicana ha ereditato negli anni 50, continuando a investire sulle stesse filiere di produzione, e ridistribuendo la ricchezza grossomodo alle stesse classi sociali. In altre parole L’Italia repubblicana e il regime fascista sono accomunati dallo stesso modello economico, perché non si è mai fatto lo sforzo di creare un modello diverso.

E come si riesce a realizzare questo cambiamento?

Isabella Rauti, sottosegretaria alla difesa e fedelissima della premier Meloni, festeggia così la fondazione del MSI, la cui fiamma, mai rinnegata dalla Meloni, rappresenta per lo zoccolo duro del partito lo spirito di Mussolini

Cambiando i settori in cui si investe, cambiando gli individui responsabili, cambiando i manager del sistema economico. In Italia è mancato tutto questo.

Si tratta di un altro effetto di una dittatura?

Certo, ma anche del fatto che con la fine del fascismo e l’inizio della Repubblica anziché cercare idee nuove, e quindi, ad esempio, far rientrare chi negli anni precedenti era emigrato per non essere perseguitato, si sono cercati semplicemente nuovi capitali.

E oggi? La continuità a lungo mantenuta è stata superata? Perché alcune forza politiche – in primis Fratelli d’Italia guidata da Giorgia Meloni – ancora faticano a una chiara condanna del fascismo in tutti i suoi aspetti, limitandosi magari solo alle leggi razziali?

Per capire questa difficoltà bisogna comprendere le vere fondamenta del regime fascista. Ti faccio un esempio. Prendi quello che ha detto la Meloni negli ultimi giorni, nel suo discorso in occasione della scopertura di una targa in ricordo dei giornalisti ebrei espulsi dopo il 1938 dall’Ordine del Lazio. Ebbene, c’è un passaggio in cui la Meloni sottolinea lo scandalo di quel che accadde, quando si impedì a qualcuno di esprimere le proprie idee, senza che nessuno si opponesse. Io credo che allora sarà importante comprendere come la Meloni affronterà il centenario della morte di Giacomo Matteotti, che cadrà il prossimo anno. Fare i conti con il fascismo, in altre parole, significa non limitarsi alla condanna del 1938 e della persecuzione contro gli ebrei, perché ormai la condanna delle leggi razziali è un dato acquisito. Io invece penso che Giorgia Meloni e il partito di Fratelli d’Italia avranno molte difficoltà a fare i conti con il fascismo precedente al 1938, proprio come Giorgio Almirante ebbe la stessa difficoltà.

Giorgia Meloni, in occasione della inaugurazione di una targa commemorativa dei giornalisti ebrei radiati dall’Ordne del Lazio. Anche in quell’occassione c’è stata una condanna del fascismo, limitata però alle leggi razziali

Può spiegare meglio questa difficoltà?

Il regime fascista è un sistema politico in gran parte costruito non da persone fasciste della prima ora, ma da una classe dirigente che si era formata in precedenza. Penso ad Alfredo Rocco, a Giovanni Gentile, a Corrado Gini, a Luigi Federzoni. Sono tutte figure che provengono dal mondo del diritto, della cultura, dell’economia, ma che fanno politica prima del 1922, in particolare nel movimento nazionalista, fondato nel 1910. Fare i conti con il regime fascista, dunque, significa fare i conti con il nazionalismo, con il linguaggio culturale del nazionalismo italiano. Oggi Giorgia Meloni non ha problemi a sbarazzarsi delle maschere più oscene del fascismo, ma il vero tema sarà comprendere se vorrà o potrà prendere le distanze dalla vera struttura ideologica culturale ed economica del fascismo.

La premier Giorgia Meloni in visita alla Comunità ebraica di Roma, lo scorso 19 dicembre 2022. Nell’occasione, la presidente della Cer ha augurato alla Meloni “di accendere non solo un lume stasera, ma tutti i giorni della sua vita una luce forte dentro di sé per affrontare il grande compito che ha davanti”

Pochi giorni fa lei è intervenuto nella cerimonia di premiazione ad memoriam di Piero Dello Strologo, insignito del Premio Primo Levi. Ha così tratteggiato il ruolo dell’intellettuale: è colui che sa farsi domande sul tempo presente, che non dimentica, che guarda al futuro, che immagina e compie cose che altri non fanno, che non rinuncia alla fiducia nella giustizia. Nel suo volume, inoltre, lei scrive: “Il passato non è mai definitivamente alle nostre spalle”. Come dobbiamo attrezzarci per il futuro prossimo che stiamo già vivendo?

A mio avviso l’intellettuale non può ridursi a chi denuncia una stortura. L’intellettuale non può limitarsi al ruolo che svolse Emile Zola nell’Affaire Dreyfuss; né a Norberto Bobbio, che spiega quali sono le regole del sistema da rispettare. Certo la necessità di ristabilire la verità dei fatti è essenziale, ma come ho cercato di dire è importante riuscire a costruire un modello diverso a quello attuale. Occorre saper costruire e immaginare il cambiamento. Per me oggi l’intellettuale deve partire dal presente per indicare cosa manca, per pensare il futuro. Ma per immaginare il futuro occorre saper individuare quali sono le mancanze del modello attuale e quali cause l’hanno provocate. Solo se si mettono a fuoco i veri problemi, si può sperare di intervenire in maniera efficace. In altre parole occorre elaborare nuove categorie culturali, economiche, sociali, per affrontare i problemi di domani, e provare a trovare una soluzione condivisa.

Zygmunt Bauman (1925-2017), filosofo ebreo polacco

Non è facile. Da dove cominciare?

Direi che innanzitutto dobbiamo cominciare dalle domande da porci. Oggi l’establishment reagisce alla necessità di un cambiamento con ironia, o peggio in modo sprezzante. Invece bisogna tornare a imparare a domandare. Zygmunt Bauman, per esempio, rappresenta un intellettuale di questo tipo. Non so se sarà facile riuscire a elaborare nuove domande, perché a me sembra che oggi manchino luoghi di elaborazione e di riflessione multidisciplinari. Bisognerà tornare a ricostruire un vocabolario comune, perché le soluzioni tecniche non bastano più.

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2 risposte

  1. Grazie per averci dato la possibilità di leggere e approfondire quanto dichiarato da Bidussa ,di cui comprerò immediatamente il libro,perché alla fine del articolo emerge chiaramente ,che anche tutti noi ,che non siamo degli storici,abbiamo capito poco e abbiamo pensato che bastava essere o sentirci antifascisti, senza avere negli strumenti per una analisi approfondita del significato e della radice da cui provengono fascismo e populismo.
    Crediamo di sapere ma in realtà ,almeno per quanto mi riguarda,,so di non ho aver cercato abbastanza in un mondo che tende a ripetere sempre gli stessi sbagli,meravigliandoci, mentre come dice e dimostra Bidussa non solo non è certo semplice ,ma stiamo sbagliando tutto e non basta certo ricordare Berlinguer e avere nostalgia di un altro tempo,occorre cambiare ,il punto di partenza.

    cui

  2. David Bidussa, come sempre, ti porta a svuppare pensieri che a loro volta germogliano in idee che ti ronzano in testa zenza sosta.

    Personalmente, essendo la mia modesta abitudine politica formata sul territorio e quindi affamata di strumenti comunicativi adatti a dar battaglia sul terreno “nemico” dei populismi, da sempre mi intriga l’idea l’idea di un progetto che osi sfidare il tema della solidarietà non più appellandosi alla crescita ma alla rinuncia, senza ovviamente prescindere dalla redistribuzione.
    Inoltre qui Bidussa mette a fuoco una grande stranezza di questi ultimi decenni: quell'”aiutiamoli a casa loro” che ha assunto contenuti programmatici opposti a quelli che in Realtà si delineerebbero veramente se la questione fosse affrontata oltre la demagogia, con conseguenti radicali ribaltamenti di priorità nell’orientamento degli investimenti e quindi di soggetti della trasformazione e di referenti politici.

    Riguardo alla sua stimolante lettura del fascismo a più piani ( non solo quello politico) e in fasi differenti , ho imparato ad apprezzarla, non senza iniziali diffidenze , nel suo lavoro da poco pubblicato, che spero verrà letto con attenzione, perchè secondo me può costituire una seria e moderna piattaforma dalla quale compiere passi avanti per uscire da una palude stagnante.

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