Leggo la realtà attraverso i colori, vivo il mio ebraismo attraverso l’arte

Giorgio Ortona, emigrato dalla Libia nel 1967, è oggi uno dei più interessanti artisti contemporanei. A Riflessi racconta della sua infanzia e della sua arte.

Giorgio, quando sei arrivato in Italia?

Sono arrivato a Roma nel giugno del ’67, come la maggior parte degli ebrei italiani e libici.

Mi racconti il tuo inserimento nella comunità italiana?

Avevo 7 anni. Il mio ricordo più profondo è dato dalla difficoltà e dal disagio provati.

Che intendi?

Ero arrivato che avevo difficoltà a leggere l’ebraico, e credo che questo mi abbia condizionato, quasi emarginandomi. Insomma, è come se essere un ebreo di Tripoli mi abbia fatto vivere l’esperienza di un mio limite. Da piccolo percepii queste sensazioni in modo molto negativo. Mi sentivo considerato fuori, vivevo l’ambiente che mi circondava in modo estraneo. Tutto ciò veniva compensato dal mio nucleo familiare, che mi ha protetto, per tutta l’infanzia. Il nido della famiglia, dei miei genitori, ha in qualche modo attutito questa mia difficoltà di integrazione. Poi, parlando più avanti con altri ebrei tripolini, ho capito che c’era un altro problema.

Quale?

La comunità mi sembrava, crescendo, fosse divisa in categorie, o “caste”, come se gli ebrei romani fossero “più ebrei” degli altri, ossia di noi ebrei di Tripoli. A volte mi sentivo differente in quanto tripolino. Penso che in parecchi abbiamo vissuto quell’esperienza. Credo che la causa fosse che noi, provenienti da un crogiolo di culture più fluide, dentro una più netta e consolidata, come quella romana, trovassimo difficoltà a riconoscerci.

E l’arte? Ti ha aiutato a superare questa fase? Quando hai capito che era la tua strada?

La copertina de “La lettura” del Corriere della sera disegnato da Ortona nel 2017

Certamente. Di questa diversa sensibilità ne ho fatto un punto di forza. Ricordo di avere sempre avuto questa sensibilità. Già prima media arrivarono i primi riconoscimenti per il disegno, e la vincita di un viaggio in Israele. Mi sono sentito subito un artista: giocavo con i colori, assembravo le forme con il modellismo, sono cresciuto con i colori Giotto in casa, sono stati il segnale per me che quella sarebbe stata la mia strada: è uno dei ricordi più potenti dell’infanzia. Mi ricordo di quando per le strade comparvero le prime linee blu dei parcheggi a pagamento – erano gli anni ’70 –, e la cosa colpì subito la mia immaginazione; oppure ricordo le luminarie di Tripoli, con le lampadine gialle, rosse, vedi e bianche, e che ho poi ho riprodotto fedelmente nel mio studio. Frequentai il liceo artistico, e lì maturai in pieno la mia dimensione artistica. Acquistai sicurezza e consapevolezza della mia identità di artista. Direi perciò che l’ambiente ebraico, ma soprattutto il mondo religioso, ma forse per mia incapacità, l’ho vissuto come un conflitto per la mia libera espressione estetica ed esistenziale.

Hai dei maestri ai quali ti ispiri, o delle correnti in cui ti inserisci?

Dipingo da oltre 40 anni. All’inizio fui influenzato da Antonio Lopez García, un artista figurativo aperto anche all’informale e al concettuale, uno dei più importanti della sua generazione, assieme a Lucien Freud. Lopez mi fece invitare alla biennale di Venezia, quella curata da Sgarbi, nella quale 200 artisti internazionali dovettero segnalare artisti italiani; bè, io fui l’unico pittore italiano indicato, e questo resta un mio vanto. Altri artisti per me importanti sono stati, anche se può sembrare strano, Jackson Pollock, e Duchamp, perché hanno arricchito la mia pittura di una profonda ricerca concettuale e di pensiero.

G. Ortona, “Acque albule”, 2021, olio su tela

Quali sono le tue maggiori esposizioni? Dove si possono trovare oggi le tue opere?

Sono presente in varie collezioni pubbliche e musei, tra i quali il Macro di Roma, la Fondazione Cavallini-Sgarbi a Ferrara, la Collezione Benetton, e il Museo Michetti per citarne alcune. Tra i vari storici e critici d’arte, cito Philippe Daverio, Vittorio Sgarbi, Edward Lucie, Smith, Lorenzo Canova. Ma ho anche collaborato anche con artisti come Pino Daniele o la Fender. Ho fatto antologiche, al MACRO di Roma con Simongini e al Festival dei Due Mondi di Spoleto con Gianluca Marziani e come ti ho detto alla Biennale di Venezia nel 2011, invitato sia al Padiglione Italia che quello della Repubblica Cubana. Esposto, sempre con Sgarbi a Palazzo Reale a Milano e con Luca Beatrice a Palazzo Reale di Torino.

Molte delle tue opere hanno al centro il cambiamento urbanistico. Ne emerge anche una certa solitudine umana. Come leggi il cambiamento della società italiana di questi anni?

G. Ortona, “Lo stadio di Addis Abbeba”, 2020, olio su tela

Guarda, vengo spesso dalla critica letto come un’artista di denuncia sociale, cosa che assolutamente non credo essere il presupposto principale. Io faccio un lavoro estetico, mi interesso delle periferie della città semiperiferica (come analizzato da Marco di Capua), e non quelle più degradate. Ci sono opere di indubbia qualità del centro storico, ma che a me non interessano, mentre altre in periferia colgono la mia attenzione. È vero che rappresento la solitudine, ma con la S maiuscola. In architettura, spesso, la presenza umana è eliminata. A volte però inserisco mia moglie, come fosse l’unità di misura della composizione, come fosse una fettuccia metrica.

Sei un ebreo credente?

(continua a pag. 2)

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