Per finire, un paio di domande sull’attuale conflitto in corso. Qual è il legame che unisce Israele all’Ucraina e alla Russia? Come interpreti il ruolo svolto dal governo israeliano nella guerra in atto?
Il “nocciolo duro” del sionismo, quello che offrirà donne e uomini allo Yishuv, si sviluppa proprio in quei territori che sono oggi lo scenario principale della guerra in corso. Da lì, per cerchi concentrici, parte la grande massa di migranti che dal 1881 in poi raggiunge sia la Palestina ottomana che le Americhe e l’Europa occidentale. Israele ha circa un milione e centomila immigrati da quei luoghi – e dalle terre contigue – insieme allo storico insediamento aschenazita, che data a quasi un secolo prima. Lo sguardo del Paese non può non essere rivolto verso quelle terre. Non è solo un fatto di ordine emotivo ma rimanda a linee di discendenza che sono molto forti. Anche su un piano culturale. Da questo punto di vista, il sionismo ed Israele, quanto meno in origine, avevano molto di più da spartire con i molteplici fermenti di quei paesi che non con altre realtà, a partire da quelle occidentali. Il governo Bennett-Lapid non poteva quindi astenersi dall’intervenire.
Sia per considerazioni di ordine internazionale (potenziale atomico, ruolo nel conflitto siriano, minaccia iraniana) che per questioni legate alla condizione interna, quella di una parte della popolazione che guarda a quei luoghi con immediata immedesimazione personale. Così facendo, ha cercato di giocare il primo tempo della sua partita in avanti, sul campo della proposta della negoziazione diplomatica, fatto che se avesse un seguito garantirebbe un’inedita immagine d’Israele: non più Paese che si confronta come potenziale vittima nei conflitti in corso ma come soggetto negoziale delle altrui contrapposizioni.
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