Il Gan Chayà a Piazza Bologna
L’esperienza di un nido per l’infanzia a Roma spunto per una riflessione su educazione ebraica e libertà
Il gan Chayà e la libertà
Poco prima di Pessach Geula Canarutto Nemni in un suo articolo intitolato Tanti auguri alla libertà scriveva “(…) Un uomo è davvero libero se si fa guidare da principi superiori, da una legge morale che gli indica la strada(…)”, un principio certamente espresso non solo nell’ebraismo ma da molti filosofi laici di cui il maggiore esponente è Immanuel Kant. In generale, si potrebbe sostenere che Il concetto di dovere, quindi, si pone nei termini di rispettare i bisogni e i desideri altrui e non creare infelicità al nostro prossimo. Per il resto l’uomo ha tutto il diritto di mantenere una propria libertà di comportamento, indipendentemente da quella che potrebbe essere la morale validamente riconosciuta nella comunità a cui appartiene. Si tratta di una discussione più che mai attuale. Basti pensare al dibattito attualmente in corso in Parlamento a proposito del DDL Zan e delle limitazioni che la CEI ne vede proprio a proposito dell’educazione.
Libertà di educazione e equilibrio con il mondo esterno
La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani stabilisce che ciascun individuo ha diritto all’istruzione. I principi della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani sono fatti propri da molte costituzioni dei Paesi Europei, tra cui quella italiana che all’art. 33 sancisce la libertà di insegnamento, mentre all’art. 34 ne sottolinea l’apertura a tutti. Rispetto però a questi principi un genitore ebreo ha un’esigenza in più: rinforzare l’identità ebraica dei propri figli e renderli fieri di quell’identità che li accompagnerà tutta la vita. E tale identità deve essere in equilibrio con il mondo esterno. Problema complesso da gestire soprattutto se come scrivevano Ilaria Ester Ramazzotti e Marina Gersony, nel 2017 sulla rivista Bet, prendiamo in considerazione la golà e il delicato equilibrio delle identità multiple presenti da sempre all’interno del mondo ebraico.
Ebreo chi?
Si tratta di una domanda che ci si pone di frequente nel mondo ebraico. Solo digitandola su internet appaiono una quantità di testi e articoli. Nel 2020 il MEIS ha ritenuto il tema così importante da dedicargli una rassegna dal titolo esemplificativo: “una, nessuna, centomila identità”. La domanda ricorrente è cosa fa di un ebreo un ebreo. Una definizione molto interessante è che gli ebrei siano definiti da una relazione e un impegno di cui lo statuto è la Torah. Il Talmud dice che un ebreo che ha trasgredito rimane ebreo perché rimane il rapporto, la relazione, anche se l’impegno è venuto meno. La Torah rimane. Essa non viene mai cancellata. Proprio a questo proposito il Rabbino Capo Rav Riccardo Shmuel Di Segni raccontava nel commento di Kippur di alcuni anni fa di come il paradosso prendesse una forma evidente per alcuni gangsters ebrei nell’America del Proibizionismo. Erano gangster, sì. Ma, comunque, ebrei e osservanti dello Shabbat. Insomma, ebrei che, pur essendo gangster, continuavano a rimanere ebrei. La Torah è il cemento di questo speciale Rapporto Quando a Shavuot si ricorda la trasmissione della Torah avvenuta al Sinài, bisognerebbe ricordare che i bambini sono i veri protagonisti poiché D-o prima di dare la Torah al popolo Ebraico, richiese dei Garanti e scelse, fra tanti, i bambini che avrebbero assicurato l’amore e l’osservanza della Torah. È forse questa la ragione per cui il Talmud afferma che il mondo si mantiene grazie al fiato dei bambini che studiano la Torah.
Il Gan Chayà a Piazza Bologna
Una risposta
Semplicemente onorato per la vostra amicizia.