Memoria, identità, conflitti: questo è il nostro modo di proporre l’arte
Livia Tagliacozzo e suo marito Barack Rubin sono i curatori, assieme a Micol Di Veroli, di Ecmensia, una mostra artistica visitabile ancora fino ad oggi
Livia, te e tuo marito, Barak Rubin, avete organizzato questa mostra a Roma, che chiude oggi. È questo quello di cui ti occupi?
In sono storica e curatrice. Sto studiando per un dottorato, e da cinque anni con Barak abbiamo da questo progetto curatoriale Idris, che nasce da una galleria a Tel Aviv. Poi ho iniziato il dottorato, mio marito adesso è direttore della Galleria d’Arte Contemporanea del Bezalel a Tel Aviv. Il resto del tempo ci dedichiamo alla nostra comune passione per l’arte.
Quindi questa non è la prima mostra.
No, ne abbiamo curato già altre. In Europa, a Madrid, e poi in Israele: a Tel Aviv, Gerusalemme, Ramat Gan, Umm el-Fahem. Questa però è la prima in Italia.
Cosa ispira le vostre scelte?
A noi piace organizzare mostre che trattano sempre temi attuali e, inevitabilmente, conflittuali, ma non attraverso un messaggio direttamente politico; evitiamo cioè di sbandierare bandiere, invece preferiamo mostrare temi sociali. E poi ci interessa la qualità degli artisti. Questa nostra totale autonomia di giudizio spiega perché collaboriamo con artisti e istituzioni diverse. Infatti non abbiamo alcun appoggio politico, ma ci fondiamo sul trust, la fiducia che gli artisti hanno in noi. Per esempio nel 2015 organizzammo la mostra “Neder,” con tutte artiste arabe, che trattavano il tema della dee, il genere femminile ela fertilità; che poi fu portato in mostra anche a Gerusalemme est.
Parliamo di questa mostra di Roma, “Ecmnesia”: che significa?
È una parola che deriva dal greco, significa qualcosa come “fuori dal ricordo”, cioè una condizione psichica legata a traumi, e allucinazioni, per cui si vive il passato come se fosse il presente.
È questo il leitmotiv della mostra? Il rapporto tra memoria e presente?
Sì. La mostra è nata con l’idea di ripensare il concetto di memoria, ossia come il passato degli artisti li influenzi nel modo di trattare i loro temi.
Ce ne parli nel dettaglio?
Esponiamo artisti diversi, nei temi e nei mezzi: sono esposti video, opere a carboncino, a olio, stampe. Ognuno affronta il tema in modo diverso, mai scontato.
Chi sono gli artisti esposti?
Sono quattro, ognuno di loro è reso in un momento diverso della carriera. Con Samah Shihadi, artista palestinese, avevamo iniziato un percorso, con una mostra nel 2018 il cui tema era l’appartenenza e il movimento. La sua specialità è usare il carboncino per scene iperrealistiche. In questa serie sul villaggio di Sh’ab, ha inserito così l’idea del movimento, e le figure quasi scompaiono. Anche la seconda, Tigist Yoseph Ron, ha esposto con noi in passato, al Museo di Jaffa, un paio di anni fa, con un’altra artista di origini etiopi ( Mimi Tasama Sibaho). Nelle sue opere ha sviluppato l’idea di casa. Lei è un’immigrata etiope israeliana; lavora anche lei con il carboncino, ma con una tecnica particolare: lavora con la cancellazione, per sottrazione.
E gli altri due?
Sei quasi arrivata alla fine della mostra: che bilancio ne dai?
La mostra Emesia sarà visitabile fino a oggi, domenica 3 luglio: Piazza S. Apollonia (Trastevere)