Un rabbino non si ferma mai

Rav Alberto Sermoneta, dopo 25 anni trascorsi a Bologna, è ora rabbino capo di Venezia. A Riflessi spiega le ragioni della sua scelta e gli obiettivi che si prefigge

Rav Sermoneta, lei da poche settimane è il nuovo rabbino capo di Venezia, avendo lasciato la sede di Bologna.

rav Sermoneta (sotto: il rav nel giorno del suo insediamento a Venezia)

Sì, sono stato a Bologna 25 anni esatti. Arrivai poco prima di Rosh Hashanà del 1997 e sono ripartito poco prima di Rosh Hashanà del 2022.

È stato difficile lasciare Bologna dopo 25 anni?

È stata certo una scelta importante, però vede, rav Toaff diceva: un rav non va mai in pensione. Io credo che sia sempre bene trovare nuovi stimoli per potersi migliorare e crescere. Venezia è una comunità più grande e con storia più lunga di Bologna, che trova le sue tradizioni nell’antichità; per me, dunque, è stato molto stimolante poter iniziare questa nuova avventura.

Che reazioni ha suscitato la sua partenza da Bologna?

Il tempio di Bologna

Ho lasciato Bologna con un filo di dispiacere, perché 25 anni non sono pochi e si erano create amicizie importanti. In tutti questi anni ho cercato di lavorare per portare la comunità sempre più in alto, anche presso le istituzioni, e devo dire che anche grazie a questo impegno oggi la comunità ha grande rilievo in città; del resto, un rav deve lavorare sempre per la sua comunità. Negli ultimi vent’anni a Bologna si sono registrate tante nascite e tanti giovani, anche se oggi però molti hanno lasciato la comunità per Alyà o per andare all’estero. Questa gioventù ha dato forza e ha abbassato la media anagrafica della comunità. Capisco che la comunità sia rimasta male della mia partenza, ma credo che, dopo 25 anni, ci fosse necessità di trovare un rav più giovane e con nuovi stimoli.

Ed è stato trovato?

Attualmente non c’è un rav a Bologna, e io ho dato ancora la disponibilità a fornire assistenza. C’è però un giovane romano, Marco Del Monte, che ha fatto studi ebraici importanti, e che mi sostituisce nella fase cultuale e per alcune lezioni. Lavora con entusiasmo, ed è la mia gioia.

un’immagine di un tempio veneziano

La sua partenza da Bologna ha creato la necessità di trovare nuovi equilibri tra le comunità ebraiche, che spesso si lamentano della penuria di rabbini. Lei che ne pensa?

Ho letto l’intervista a rav Moscati, con cui abbiamo fatto gli studi insieme, per cui direi che siamo più che amici: siamo come fratelli. Studiando insieme al Collegio rabbinico ci si siamo resi conto che già all’epoca era difficile trovare rabbini. Che i rabbini romani non si spostano però non è vero, abbiamo coperto parecchie cattedre in Italia. Oggi credo che chi gestisce il Collegio, come la scuola di Milano e Torino, dovrebbero far capire che se è vero che fare il rav richiede una vocazione, e prevede un compito con molti sacrifici, anche per la sua famiglia, ci sono però anche soddisfazioni. Si conoscono nuove realtà, nuove società. Sono sfide con noi stessi. Il rav deve insegnare ed essere disponibile a tutti e dedicarsi anche al buon andamento del tempio, che è il cuore pulsante di una comunità. Molto spesso fa da aiuto morale e psicologico della comunità e quando è necessario, deve affrontare problemi o persone con un po’ di leggerezza, il proverbiale umor ebraico. Come dice rav Moscati, si comincia a parlare di tutto per avvicinarsi alla Torà. D’altra parte anche in Israele ci sono rabbini ortodossi con kippot colorate, ma hanno una preparazione importante, e sanno anche avvicinare agli altri. Il compito del rav è avvicinare chi è lontano. Facendogli capire l’importanza di un’appartenenza.

Cosa si aspetta da Venezia?

Come le dicevo è una comunità con moltissime tradizioni e con un’identità ebraica forte. È inoltre una comunità media, con 5 sinagoghe aperte, che fa sentire la sua voce nell’ebraismo italiano. Detto questo, c’è da lavorare molto; i veneziani sono collaborativi, e si può ancora migliorare.

Che differenze ha trovato rispetto a Bologna?

È ancora presto per dirlo, però non c’è dubbio che qui si sente una forte tradizione familiare, che risale ai nonni e a trisavoli. E poi c’è una radicata tradizione popolare, non solo sul piano dell’halakhà; in questo è simile a Roma. Bologna è una comunità più piccola, con una storia più recente, che nasce dalla metà dell’Ottocento, duramente colpita dalla Shoah. Oggi è formata da famiglie che provengono da tante parti diverse. A Venezia invece la maggior parte è del posto.

Che obiettivi si è dato a Venezia?

Un rav deve avere sempre un obiettivo. Non c’è dubbio che la prima cosa è ottenere il coinvolgimento dei giovani, che sono la garanzia del proseguimento della comunità. Ad oggi infatti mi sono concentrato con i giovani un po’ più “lontani”. Venezia ha giovani famiglie e giovani iscritti, che seguono la tradizione e vengono al tempio. Poi ci sono quelli meno presenti, che vengono per Rosh Hashanà e Kippur: il mio obiettivo è cercare di riunire le famiglie più giovani, dargli una prospettiva e un punto di riferimento, ma soprattutto far sì che si ritrovino in una comunità con radici storiche molto profonde. E poi le famiglie più lontane vanno riavvicinate. È importante che a Venezia ci siano 2 ristoranti kasher, uno Chabad e uno delle comunità, perché sono luoghi ideali per fare incontri, e per creare un’atmosfera più conviviale e ospitale. Quando ci riuniamo a cena si chiacchiera di tutto, finalizzandolo al bene della comunità e dell’ebraismo. A parte questo, ci sono poi le lezioni. Ogni settimana tengo 3 o 4 corsi, uno solo per donne, in cui possono confrontarsi tra loro; per adesso abbiamo cominciato a parlare del ruolo della donna nella Torà e nell’ebraismo moderno. E poi ci sono i corsi di talmud Torà e quello per ragazzi.

E con l’attività cultuale?

Anche qui sono ottimista, perché al Tempio c’è sempre tanta gente, facciamo tefillà 3 giorni a settimana (lunedì, giovedì e shabbat), tutte le 4 preghiere dello shabbat, compreso il momento del “terzo pasto”, la seudà shelishit. Io parto sempre dal ruolo del tempio, come ho detto è la base e il cuore pulsante della comunità, se funziona funzionerà tutto il resto; da noi, di shabbat ci sono sempre circa 100 persone, addirittura 200 d’estate.

Non ha mai pensato di poter tornare a Roma?

Innanzitutto non mi sono sento emigrato! Sono tuttora molto legato a Roma. Per il resto, vedremo cosa ci riserverà il futuro. Io già pensavo alla pensione vicina, e il Signore invece mi ha proposto questa strada; come è scritto: “Agli uomini spettano le cose note, al Signore quelle occulte”. Io penso che noi dobbiamo sempre migliorarci e fare il bene dell’ebraismo italiano. Per tornare a Roma ci sarà tempo, dopo la pensione. Adesso però è il tempo di darsi da fare. Del resto, si sa: gli ebrei camminano sempre, sono sempre in movimento.

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