Sono un rav indipendente al servizio dell’ebraismo italiano
Rav Daniel Touitou, eletto nella consulta rabbinica dell’Ucei e rabbino capo a Venezia, descrive a Riflessi lo stato dell’ebraismo italiano, e come intervenire nei punti di maggiore crisi
Rav Touitou, da quanti è rabbino capo a Venezia?
Sono 2 anni.
Lei non è italiano. Ci parla di sé?
Ho 53 anni. Sono nato in Francia, e cresciuto a Strasburgo; all’età di 11 ho fatto l’Alya. Ho vissuto Petak tikva, e ora a Netanya. Qui a Venezia sono venuto con mia moglie, mentre i miei figli vivono in Israele. Sono nonno di 3 nipoti.
Cosa l’ha spinta ad accettare l’incarico a Venezia, una comunità storica, ma molto piccola?
Volevo fare una cosa significativa per il popolo ebraico.
Che situazione ha trovato a Venezia?
La realtà è molto complessa, difficile. Io ho già lavorato in piccole comunità, in Argentina e in Brasile. Adesso mi trovo con una realtà estremamente preoccupante. Il problema principale è la non adesione dei membri alla vita comunitaria, purtroppo le persone non sono interessate a vivere ebraicamente. Nella nostra sinagoga ci sono uomini dai 60 anni in su, significa che mancano almeno 2 generazioni.
Quanto è grave questa assenza?
Moltissimo. Vede, la sinagoga è un luogo educativo, addirittura unico in una comunità piccola. A Venezia c’è un asilo d’infanzia, aperto 2 volte a settimana, e un Talmud Torà aperto 3 volte a settimana. Ma la sinagoga resta il luogo principale, e le persone ancora non capiscono l’importanza fondamentale di frequentarla. Ci sono per esempio pochissimi bambini. Un padre, il sabato, deve capire che deve portare il figlio al Bet Ha–Knesset, non all’asilo.
Che idea si è fatto finora dell’ebraismo italiano?
Mi sembra che l’ebraismo italiano viva una crisi molto profonda. Purtroppo, se non cambia il suo modo di vivere non ha molto futuro, in parte già assimilato e non praticante. Il passato è importante, ma senza la pratica non potrà sopravvivere al rischio di assimilazione. Molti ebrei stanno diventando indifferenti alla loro identità.
Come si può reagire a questo rischio vivendo in una piccola comunità?
Io qui a Venezia ogni giorno faccio 1 ora di Talmud Torà, le persone sanno quello che si fa, l’importanza che do alle pratiche delle miztvoth, fondamentale in una comunità senza legami con i grandi centri, come sono Roma e Milano. Il problema è che qui, come le dicevo, occorre recuperare la continuità tra generazioni. Per questo sto cercando di formare un gruppo di coppie giovani che siano ancora in età per avere figli, e insieme si studia. All’inizio ogni 15 giorni, ora tutte le settimane. Occorre che i giovani si assumano la responsabilità della continuità ebraica.
Sono coppie ebraiche?
In gran parte sì, ma ci sono anche coppie miste, che studiano per la conversione. Perché ciò sia possibile occorre che dentro la casa ci sia un’educazione ebraica: per le feste, lo shabbat, la kasherut, la purità della famiglia. Insomma, perché si abbia un futuro ebraico occorre avere delle famiglie dove i bambini che arriveranno vivranno da ebrei.
Da tempo una polemica che attraversa l’ebraismo italiano riguarda la politica del rabbinato circa i ghiurim.
Lei è stato nominato domenica all’interno della consulta rabbinica dell’UCEI. Che segnale è questo, secondo lei?
Certo eserciterò il mio ruolo in modo indipendente. Credo che la mia elezione, voluta dalle piccole comunità, che vogliono vedere un atteggiamento diverso nei loro confronti, sia un segnale. Quando mi sono candidato pensavo che fosse utile dare un contributo. Le piccole comunità conoscono il mio lavoro, e credo lo abbiano apprezzato.
C’è stata della polemica perché nessun rav di una grande comunità è stato eletto.
Mi è difficile leggere ogni sfumatura di questa elezione, e non voglio dare giudizi. Credo però che il pensiero che viene dalle grandi comunità sarà presente. Rav Di Porto è un rabbino romano che ha studiato a Roma, e rav Momigliano, eletto vicepresidente dell’Ari, evidentemente gode della fiducia anche dei rabbini delle grandi comunità. In ogni caso, anche se la mia elezione può aver generato stupore in alcuni, il mio obiettivo non è fare machloket [polemica, n.d.r.], ma solo contribuire al bene collettivo. Confido che in Consulta faremo molte discussioni utili e positive.
In definitiva, cosa serve all’ebraismo italiano per risollevarsi?
Ci vogliono molte cose. Impegno, soldi, tenacia. Bisogna che le persone si muovano e diano una mano. Chi può farlo? Soprattutto il centro nevralgico dell’ebraismo italiano: Milano e Roma. Una possibile soluzione, in seno all’Ucei, è per esempio la creazione di un dipartimento per le piccole comunità, come fatto in Argentina; lì ha funzionato. E poi bisogna fare un’attività sociale intensa, collegare centro e periferie.
È pessimista per il nostro futuro?
Io credo che con il lavoro arrivino anche i risultati, grazie a D.o. Oggi vedo che ci sono ancora molti problemi. Ma, per parlare della mia comunità, le dico anche che io sono venuto a Venezia per realizzare un cambio di passo, e sono sicuro che succederà.
Questa è la ventunesima tappa del nostro viaggio nel rabbinato italiano.
Per leggere le altre tappe del viaggio:
Rav Alfonso Arbib, Rav Della Rocca, Rav Momigliano (qui e qui), Rav Spagnoletto, Rav Dayan (qui e qui), Rav Di Porto, Rav G. Piperno, Rav Sermoneta, Rav Somekh, Rav Hazan, Rav Punturello, Rav Caro, Rav U. Piperno, Rav Lazar, Rav Finzi, Rav Canarutto, Rav Ascoli , rav Di Martino, rav Pino Arbib, e rav Locci
2 risposte
Molto interessante
Una bella motivazione …!!!
L’intervista mi ha dato l’ottima impressione di un Rav realista e costruttivo