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“Shtisel”: il coraggio di contraddirsi

Come può una serie locale girata in yiddish diventare un fenomeno culturale mondiale? Dopo aver esaminato The Post, andiamo alla ricerca del segreto di una serie Tv

La popolarità della serie Shtisel è cresciuta negli anni, stagione dopo stagione, sorprendendo gli stessi autori e il cast.

Iniziata come una produzione dai costi contenuti per lo studio israeliano Yes, e successivamente acquistata da Netflix, che ha finito con produrne le ultime due stagioni, la serie nasceva da una scommessa dei due autori Ori Elon e Yehonatan Indursky, quella di raccontare l’universo che ruota intorno a una famiglia di haredim nel quartiere di Geula a Gerusalemme.

I protagonisti avrebbero recitato in ebraico e in yiddish e le ambientazioni principali sarebbero state quelle del quartiere. Un progetto quindi con una chiara vocazione locale, che ha finito invece col diventare un fenomeno universale, coinvolgendo un pubblico internazionale, pur mantenendo i dialoghi originali senza adattamento di doppiaggio.

I protagonisti sono stati i primi a meravigliarsi della capacità della serie di parlare a un vastissimo numero di persone, credendo inizialmente che, nella migliore delle ipotesi, avrebbe potuto avere un qualche successo soltanto in Israele. Eppure il successo di Shtisel non è frutto del caso. La progettualità dei due autori aveva dei cardini chiari e d

egli assoluti punti di forza. L’approccio non aveva nessun intento antropologico, l’immersione nell’universo haredim è completamente scevro da tentazioni voyeuristiche.

Nell’arco di una puntata ci si trova collocati nel mezzo di dinamiche famigliari universali, dove il contesto, un sistema normativo tanto codificato quanto vissuto, viene dato per assodato. Questo sguardo dall’interno è la forza di ogni racconto che voglia disvelare un universo, rendendone giustizia proprio perché se ne mostrano le dinamiche, i paradossi, i conflitti.

Un chiaro punto di riferimento è la produzione letteraria di Chaim Potok, che in maniera altrettanto profonda e lungimirante, ha mostrato le dinamiche interne al mondo Ladover. Non è un caso che come nel dittico “Il mio nome è Asher Lev” e “Il dono di Asher Lev”, in Shtisel la vocazione di uno dei protagonisti, Akiva, sia la pittura, con tutto quello che ne consegue in termini di conflitto con una tradizione che limita fortemente la raffigurazione pittorica di soggetti non religiosi. Sicuramente il lavoro fatto dalla regista israeliana Rama Burshtein si colloca nella stessa direzione, soprattutto con La sposa promessa, film di grande profondità.

Quello che accomuna questi racconti dall’interno è il ruotare intorno a un sistema normativo come cornice entro la quale i protagonisti si muovono ma anche come limite da mettere in discussione. Da qui nasce un andamento paradossale che innerva tutta la scrittura di Shtisel. Ogni personaggio è continuamente sollecitato a compiere una scelta, in alcuni casi in aperto conflitto con la tradizione.

L’espediente narrativo più sorprendente e più prolifico è quello di far compiere ai protagonisti due azioni di segno contrario. Accade ad esempio a Shulem, capo famiglia dallo straordinario carisma, che si trova a sconsigliare convintamente il matrimonio del figlio Akiva con una donna vedova di due mariti, per poi fare di tutto perché invece quel matrimonio avvenga. Questo doppio passo, che è il coraggio di contraddirsi, mi sembra davvero uno dei cardini della serie.

Ancora una volta nasce da uno sguardo tutto interno alla realtà chassidica. Non si tratta di rimanere sorpresi di fronte a piccole infrazioni, che rendono i personaggi più umani e per certi versi universali, ma al contrario di prendere atto di un paradigma filosofico. Un sillogismo di tradizione chassidica dice: “quando possiamo affermare nel compiere un’azione che le nostre motivazioni sono sincere? Soltanto quando non appartengono alla nostra natura. E quando possiamo essere certi che non appartengano alla nostra natura? Soltanto quando percorriamo due strade opposte allo stesso momento.”

Su questo principio ho costruito il mio film The Book of Vision, dove i personaggi compiendo azioni di segno opposto trovano un’insperata e risolutiva sintesi della propria vita. In Shtisel il coraggio di contraddirsi significa sforzarsi di non assecondare quello che ci verrebbe naturale, quello per cui in fondo siamo portati, ma di sorprendersi facendo qualcosa che non ci si aspetta da noi.

Questa rivoluzione appartiene a tutti i personaggi della serie, e forse è l’omaggio più sentito a una capacità del tutto umana: ricomporre il conflitto attraverso il nostro agire. “Un ebreo non dovrebbe solo parlare ma anche fare”, come viene detto in “Il mio nome è Asher Lev”.

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