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La “legatura di Isacco”: sogno o realtà?

Perchè a Rosh Ha Shanà leggiamo proprio l’Akedat Yitzchaq?

Rav Gianfranco Di Segni

La Aqedàt Yitzchàq, impropriamente tradotta con “sacrificio di Isacco” (in realtà significa “legatura di Isacco”), è uno dei passi più problematici del libro di Bereshit (parashà di Va-yerà, cap. 22). È un brano fondamentale per la concezione ebraica, e ciò è dimostrato dal fatto che i Maestri l’hanno scelto come lettura biblica per i due giorni di Rosh Hashanà, insieme al capitolo 21 che narra la separazione fra Avraham e il primo figlio, Yishmael (i due capitoli sono strettamente collegati anche concettualmente, non solo in quanto consecutivi).

Sappiamo bene che la Torà e gli altri libri della Bibbia condannano duramente i sacrifici umani, a quell’epoca diffusi fra le popolazioni della regione con le quali gli ebrei erano in contatto, e che tali sacrifici sono “un abominio” agli occhi del Signore (p.es. Lev. 18:21; 20:2-5; Deut. 12: 29-31; 18: 9-13; Michà 6: 6-8; Geremia 7:31; 19:4-5; 32:35).

Rosh ha shana visto da Lele Luzzati

Sgombrato quindi il campo da interpretazioni che non sono coerenti con il testo stesso della Torà, rimane però il problema di come interpretare tutto l’episodio, a iniziare dai versi 1 e 2 del cap. 22 di Bereshit: «E D-o mise alla prova Abramo … e gli disse: “Prendi tuo figlio, l’unico, quello che ami, Isacco, vai verso la terra di Morià e fallo salire là come ‘olà su uno dei monti che ti dirò», dove ‘olà è inteso in genere come sacrifico di olocausto, un sacrificio che viene bruciato integralmente e il cui fumo sale in alto. Ugualmente problematico è il seguito del racconto. Di che genere di prova si tratta? Chi è il “D-o” che parla ad Abramo? Perché Abramo viene messo alla prova? Lo scopo della prova è di insegnare qualcosa ad Abramo? E che cosa? E così via. Sono molte le domande che emergono dal racconto. Vediamo cosa dicono i nostri commentatori. Ne riporto qui due, Rambam e Abrabanel, così come sono presentati nel libro di Alexander Even Chen, Aqedat Yitzchaq ba-parshanut ha-mistit ve-ha-filosofit shel ha-Miqrà (Yedioth Ahronoth Books and Chemed Books, Tel Aviv 2006), che oltre a questi due autori riporta anche le interpretazioni dei Chassidim tedeschi del XII secolo, di Rav Levi Yitzchaq di Berditchev, di Rav Shimshon Refael Hirsch, di Rav Avraham Yitzchaq Kook e di Avraham Yehoshua Heschel.

rav Abram Kook (1865-1935)

Rambam (Rabbi Moshè ben Maimon, o Maimonide; Cordova, Spagna 1138 – Fostat, Egitto 1204) affronta il tema della Aqedà nel Morè Nevukhim (la “Guida dei Perplessi”), la grande opera filosofica scritta in forma di lettera inviata a un suo discepolo con lo scopo di chiarire i dilemmi in cui ci si può imbattere studiando la Torà e le opere dei Maestri, in particolare quando lo studio dei testi ebraici è affiancato dalla lettura delle opere dei filosofi.

il monumento a Maimonide, vissuto nel XII secolo

Rambam, consapevole del rischio che si corre a trattare certi argomenti, scrisse in realtà in forma a volte allusiva e non è sempre chiaro quale fosse la sua vera opinione. Il racconto della Aqedà è uno di questi casi: è trattato estesamente nella Parte III, cap. 24 della Guida, e in altri passi (II, 30; II, 45; III, 17). La prova cui è sottoposto Abramo va inserita nel più ampio contesto della rivelazione divina agli uomini e in particolare ai profeti, una rivelazione che si estrinseca in diverse modalità e a diversi livelli. Uno scopo del racconto della Aqedà è, dice il Maimonide, «farci conoscere fino a che punto i profeti avvertano come reale tutto ciò che viene comunicato, per rivelazione, da D-o; e ciò affinché non si ritenga, manifestandosi la rivelazione, come abbiamo già spiegato, nel corso di un sogno o di una visione, o mediante la facoltà immaginativa, che ciò che i profeti odono o è loro presentato in maniera metaforica, non sia conforme a verità o, per lo meno, che vi sia frammischiato qualcosa di ipotetico. […] In tale senso vanno interpretati i brani relativi a “prove”, dovendosi respingere l’idea che D-o voglia mettere alla prova e sperimentare una cosa, al fine di conoscere ciò che non conosceva prima. D-o è troppo elevato e superiore rispetto a ciò che immaginano, data la loro difettosa intelligenza, gli stolti e gli ignoranti» (Guida III, 24 nella trad. di Rav Giusepe Laras, Il pensiero di Mosè Maimonide, Carucci ed., Roma-Assisi 1985 pp. 190-193, riedito anche da Morcelliana, 1998, con il titolo Mosè Maimonide. Il pensiero. Per una trad. integrale della Guida, vedi M. Zonta, Utet 3 2003, 2005; di Zonta vedi anche Maimonide, Carocci, 2011, in part. pp. 127-132).

Una concezione simile è esposta da Rambam anche nell’altra grande sua opera, il Mishnè Torà: «Tutti i profeti ricevono la visione profetica soltanto in sogno, o durante una visione diurna o notturna, dopo essere stati colti da sonnolenza profonda» (Mishnè Torà, Hilkhot Yesodè Ha-Torà, VII, 1-5, trad. it. di Rav Laras, op. cit., pp. 155-157). In altre parole, ciò che sembra accadere nella visione o nel sogno profetico non avviene affatto nella realtà. Per il profeta, gli eventi sono reali: dal suo punto di vista, Abramo, nella prima visione occorsagli in sogno, capisce che D-o gli chiederebbe di sacrificare il figlio; invece, nella visione finale, che è a un livello superiore, Abramo percepisce che la volontà di D-o è che il figlio non sia sacrificato. Vediamo qui un’evoluzione nel grado della profezia di Abramo, ma è un’evoluzione interna alla persona stessa, nella formazione della propria coscienza religiosa. Per Rambam, e per noi lettori della Guida con lui, né la prima né l’ultima rivelazione ebbero luogo nella realtà, ma solo nell’immaginazione di Abramo. Così, almeno, sembrerebbe di capire dalle parole del Maimonide. Vedremo però che non è detto che questa sia l’interpretazione giusta della sua opinione.

l’antico ghetto di Padova

Don Yitzchaq Abrabanel, nato a Lisbona nel 1437, fu cacciato dalla penisola iberica nel 1492, approdando dapprima a Napoli e poi a Venezia, dove morì nel 1508 (è sepolto a Padova). Egli scrisse, fra le sue numerose opere, un vasto e dettagliato commento alla Bibbia e al Morè Nevukhim di Rambam. Il brano della Aqedàt Yitzchàq è affrontato attraverso una serie di 25 domande e risposte (come egli usa fare in tutto il suo commento alla Bibbia), riguardo sia a D-o che Abramo e Isacco. È notevole quanto Abrabanel afferma rispetto ai due Patriarchi nella prima delle risposte. Il vero padre del popolo ebraico è Isacco, non Abramo. Solo Isacco infatti è “un giusto figlio di un giusto”, Abramo è invece “un giusto figlio di un malvagio”.

Abrabanel, pur avendo sincera ammirazione e stima per il Maimonide, quando reputa opportuno criticare alcune sue opinioni filosofiche e teologiche lo fa senza mezzi termini. La divergenza fra queste due grandi personalità è evidente soprattutto riguardo alla profezia. Nel commento al cap. 36 della parte II della Guida Abrabanel parla apertamente della falsità (shiqrutà) della concezione maimonidea, secondo la quale la profezia avviene in sogno o nell’immaginazione del profeta. Numerosi passi della Bibbia, dice Abrabanel, vanno contro questa idea.

Nelle numerose pagine dedicate al brano della Aqedà nel suo commento alla Torà, Abrabanel riferisce le parole di Rambam nel Morè Nevukhim al cap. 45 della Parte II, dove sono descritti i vari gradi della profezia, e scrive che alcune persone del nostro popolo hanno travisato le parole di Rambam ritenendo che tutto l’episodio della Aqedà, dall’inizio alla fine, fosse solo una visione profetica. Abrabanel aggiunge queste forti parole: «Sono rimasto sconvolto e sconcertato a sentire e vedere persone fra i figli di Israele scrivere in un libro queste parole eretiche (apiqorsut) e attribuire al Rav [Rambam] una tale concezione spregevole, così lontana dalla sua vera opinione». Abrabanel qui afferma che sono i commentatori della Guida ad aver errato a causa della «loro corta mente e poca comprensione delle parole di Rambam».

Secondo Abrabanel, la reale concezione di Rambam riguardo alla Aqedà è che solo le parole divine all’inizio del racconto e le parole dell’angelo alla fine di esso sono sentite in sogno o in una visione profetica, mentre tutto il resto, ossia il viaggio di Abramo e Isacco per tre giorni, la costruzione dell’altare e la legatura di Isacco sopra di esso, il tentativo di posare il coltello sul collo di Isacco ecc., tutto ciò avvenne nella realtà. La voce dell’angelo alla fine del racconto fu, secondo Abrabanel (e a differenza di Rambam), una voce concreta, non immaginaria. Abramo sentì una voce celeste, capì quello che doveva fare (cioè che non doveva posare la mano sul figlio e che al posto suo doveva sacrificare l’agnello) e così fece.

Dopo aver chiarito quella che secondo lui è l’interpretazione del racconto e delle parole del Rambam, Abrabanel si pone la domanda: D-o veramente chiese ad Abramo di sacrificare il figlio? È possibile attribuire una richiesta del genere a D-o? O ci fu forse un cambiamento nell’idea di D-o? Abrabanel risponde che no, l’idea iniziale di D-o non era affatto che Abramo sacrificasse il figlio e che la parola “sacrificalo” (ve-ha’alehu) va invece intesa come “fallo salire”, come hanno spiegato altri commentatori prima di lui, fra cui Rabbi Yona ibn Genach (Rivag), Rabbi Levi ben Gershom 4 (Ralbag) e lo stesso Rashì, sulla base del Midrash. D-o intenzionalmente usò un’espressione ambigua, e questa fu la prova cui sottopose Abramo. Ma Abramo, dice Abrabanel, non superò la prova e sbagliò nella comprensione dell’ordine divino. Per questo fu necessario l’intervento finale dell’angelo divino che riuscì in extremis a fermare la mano di Abramo.

Dal confronto fra questi due autori, Rambam e Abrabanel, e di tutti gli altri commentatori sopra citati, è possibile vedere la molteplicità di sensi che il racconto biblico possiede.

(Dalla derashà tenuta all’Oratorio “Di Castro” di Via Balbo, Roma, a Rosh Hashanà 5772; versione rielaborata per Riflessi rispetto a quella contenuta in Torah.it)

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La Redazione di Riflessi augura a tutti i suoi lettori e alle loro famiglie un 5784 di serenità, prosperità, amicizia. Che sia un buon anno per noi ebrei, per le nostre comunità, per Israele.

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